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Il mestiere di morire. Ipotesi su Pavese

Nell’introduzione a Il mestiere di vivere, Cesare Segre elenca per sommi capi le “ipotesi esplicative” del suicidio di Pavese: «Delusione amorosa, crisi ideologica o senso di colpa d’ordine politico, […] impasse creativa» (“Introduzione” a Il mestiere di vivere [MdV], Einaudi, Torino, 2000). Se la pubblicistica ha a lungo enfatizzato i tratti sentimentali, mentre la critica si è soffermata le motivazioni artistiche, a questo punto non resta che approfondire la dimensione politica del gesto estremo compiuto dallo scrittore.

Per farlo, è obbligo partire dalle suggestive analisi di Furio Jesi sviluppate nei tre capitoli centrali di Letteratura e mito [L&M] (Einaudi, Torino, 2002, pp. 129-186), che aggiungono un’ulteriore ipotesi esplicativa, quella religiosa, la quale vedrebbe Pavese suicida perché impossibilitato a vivere il mito in maniera collettiva e dunque costretto a obbedire al sacramento supremo della “religione della morte” condivisa con la Germania segreta di Frobenius e Kerényi (e Stefan George e Thomas Mann).

Anche volendo concordare con la lettura di Jesi, è problematico che egli non prenda mai realmente in considerazione l’effettiva militanza comunista dell’Autore (che infatti liquida in due righe: «[Pavese] non ha mai fatto proprio il mito di una prossima e raggiungibile età d’oro di benessere e di giustizia sociale riconosciuto da Eliade in certa ideologia marxista», L&M, p. 173), giungendo infine a trattare lo scrittore piemontese quasi come uno di quei rappresentanti della Cultura di destra alla quale dedicò un celebre saggio poco prima di morire.

Non è un caso che Pietro Angelini (curatore del carteggio con Ernesto De Martino) rivaluti le ipotesi jesiane esclusivamente alla luce del rinvenimento di un diarietto del 1943 dal quale emerge un Pavese “nazi”, impegnato a fantasticare sull’ideologia del sangue e suolo (cfr. C. Pavese – E. De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 28).

Che Pavese fosse un “compagno” (anche se identificato dagli altri come “cattivo compagno”, si veda nel diario l’appunto del 15 febbraio 1950) e che ciò abbia avuto un peso nel suo suicidio, non può essere ignorato dalla critica: lo stesso Angelini afferma che egli si iscrisse al Pci “a titolo espiatorio” («ce la metterà tutta, per diventare un compagno», La collana viola, p. 19), e Marziano Guglielminetti (curatore del diario), conferma: «Non solo l’amore […] porta all’estinzione di sé, ma anche l’impegno politico a sinistra» (MdV, p. LXII). Non è superfluo riportare l’ammissione dell’Autore nelle pagine finali del diario: «Mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio» (27 maggio 1950).

Per comprendere come il suicidio di Pavese sia soprattutto “politico”, è però necessario ritornare all’ipotesi più “popolare” della delusione sentimentale. È noto il trauma che in gioventù provocò allo scrittore la notizia che Tina PIzzardo, la donna di cui si era invaghito, si sarebbe sposata dopo averlo fatto finire al confino proprio a causa di alcune lettere che lei, militante comunista, chiese a Pavese di ricevere al suo posto: «La perdita del suo primo e più grande amore assumerà a lungo per il lui il senso di una irrimediabile condanna alla solitudine e allo scacco esistenziale» (così Lorenzo Mondo, curatore dell’epistolario, in Vita attraverso le lettere, Einaudi, Torino, 2004).

Questa sciagura personale diventa l’ossessione di una vita, e lo costringe a chiedere la mano a donne che prevedibilmente avrebbero rifiutato (dalla Pivano alla Dowling, storie tristi e risapute): è uno dei suoi “riti” individuali, con cui ripete l’impossibilità di accedere, attraverso le nozze, alla vita, all’origine, alla salute. Al di là dei suoi problemi di natura sessuale (sui quali è inopportuno speculare) è il “mito delle nozze” che piaga l’opera pavesiana.

Come nota Segre, «Pavese ritiene di non potersi mai sposare, perciò la maturità non la raggiungerà mai» (MdV, p. XXIV). Non val la pena riportare tutti i passaggi dei diari e dell’epistolario che confermano l’identificazione di nozze e maturità (anche perché alcuni sono sconcertanti nella loro banale ingenuità: «Sposarsi segna il trapasso dalla giovinezza alla maturità», 24 novembre 1938): basti sapere che l’Autore, non riuscendo ad avere una “sua” donna, considerò sbarrato l’accesso all’età adulta.

Per superare l’impasse non solo a livello esistenziale, ma anche artistico, Pavese passa dal mito delle nozze a quello dell’infanzia: se egli è fatalmente condannato a rimanere fanciullo, allora che questo fanciullo venga sacralizzato e divinizzato attraverso Frobenius, Jung e tutti gli altri “stregoni” della famigerata Collana Viola einaudiana.

È qui che le osservazioni di Jesi si fanno produttive, almeno fino al momento in cui Pavese smette di credere alla mascheratura e si rende conto che vivere il mito del “fanciullo divino” è impossibile. Il punto di rottura, che già emerge nei famosi saggi successivi ai racconti di Feria d’agosto, si verifica nel 1947, con la pubblicazione de Il compagno e dei Dialoghi con Leucò, che per l’Autore stesso rappresentano i due estremi della sua opera, «naturalismo e simbolismo staccati» (26 novembre 1949).

Non è da sottovalutare l’esigenza di “razionalizzazione” imposta dal Pavese-politico al Pavese-scrittore. Se l’idea di infanzia come stadio di conoscenza primordiale, momento di esperienze fondamentali e irripetibili, è estremamente fecondo a livello artistico, esso tuttavia non può bastare a un intellettuale militante. La necessità di “ridurre i miti a chiarezza” è perciò sempre presente in Pavese: bisogna distruggere non solo i miti collettivi, ma anche la propria mitologia personale («Che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura», scrive nel saggio di Feria d’agosto “Del mito, del simbolo ed altro”).

Dal punto di vista culturale, egli trova invece opportuno “filtrare” le letture etnologiche se non attraverso Marx, almeno col Vico sottomano, appunto per incardinare anch’esse nel processo di razionalizzazione. Nel saggio “Il Mito” l’Autore infatti scrive: «Far poesia significa portare a evidenza e compiutezza fantastica un germe mitico. Ma significa anche, dando una corposa figura a questo germe, ridurlo a materia contemplativa […] e in definitiva abituarsi a non crederci più, come a un mistero che non è più tale» (“Il Mito”, Saggi letterari, Einaudi, Torino, 1951, p. 320).

In sintesi, Pavese non si lascia mai “realmente” prendere dal mito dell’infanzia: nello scritto appena citato “Del mito, del simbolo ed altro” addirittura avanza l’idea che nemmeno il bambino sia in grado di conoscere il mondo «con immediato e originario contatto alle cose», ma «attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti». E poche pagine dopo, in un altro breve saggio (“Mal di mestiere”, in Feria d’agosto, Einaudi, 1946, p. 236), egli bolla «la tentazione di riattingere con amplesso innaturale l’universo preinfantile delle cose» come “peccato”.

(In tale processo di razionalizzazione –ma questa per ora è soltanto un’ipotesi– potrebbe rientrare anche la scelta di basare i Dialoghi con Leucò non, per esempio, sui Veda, che pure in quel periodo leggeva appassionatamente, bensì sulla mitologia greca «familiare fin dall’infanzia, dalla scuola», anche al rischio di arenarsi nella belluria neoclassica).

È singolare che Jesi, pur riconoscendo la diversità di Pavese rispetto a tutte le teorie sul “valore archetipico della conoscenza infantile” proprie della religio mortis, riduca questa differenza a “espediente”: «Per quanto Pavese, più o meno volontariamente, non si azzardi a parlare di memoria prenatale, ma ricorra all’espediente dei simboli prefabbricati, i quali poi si rivelano i simboli primordiali, il gioco psicologico è evidente e la sostanza resta la stessa» (L&M, p. 144).

Invece la “sostanza” è talmente differente che appunto Rilke e Mann, al contrario di Pavese, hanno potuto trovare salvezza nell’arte: ma Jesi risolve questo paradosso riconoscendo a Pavese solo una maggiore ortodossia alla “religione della morte”, che gli avrebbe reso impossibile accettare il “compromesso faustiano”. Credo che la prospettiva vada ribaltata: Pavese non ha accettato il mito dell’infanzia come musa inesauribile proprio perché non ci credeva. Egli era comunista e volle essere compagno fino in fondo. Alla fine il comunismo per Pavese rappresentò proprio quel “mito genuino” dal quale Jesi fu non del tutto consapevolmente ammaliato (come emerge in particolare in Spartakus), e che poi cercherà di risolvere con la teoria della “macchina mitologica”.

Insomma, il grande Cesare poteva accettare sì una etnologia, ma mai una entomologia del proletariato. La sua militanza, che gli costò anche pesanti umiliazioni, fu ispirata dall’ideale di “ridurre i miti a chiarezza”. Come scrisse in una recensione a un saggio dello stesso De Martino, «nel corso della razionalizzazione e scientifizzazione di tutta la vita di un popolo come la propone il socialismo, proprio gli elementi culturali più rozzi, indifferenziati, mistici, magici, prescientifici ecc. verrebbero studiati, compresi e rivendicati» (Discussioni etnologiche, “Cultura e Realtà”, n. 1, maggio-giugno 1950; ora in Saggi letterari, p. 323).

E ancora: «Ci tocca […] ficcare lo sguardo e le mani nell’infinito caos mitico dell’amorfo e dell’irrisolto, e impastarlo, travagliarlo, illuminarlo finché non lo si possieda nella sua vera oggettività […], capire, cioè rendere europei, sia l’inconscio che le culture della maschera (Capire significa, beninteso, vichianamente “intendere”, cioè rivivere e giudicare)» (L’umanesimo non è una poltrona, “La Rassegna d’Italia”, 5 maggio 1949; ora in Saggi letterari, p. 253).

Difficile capire cosa non abbia “funzionato” nell’adempimento a tali ambiziosissimi propositi. Da una parte sicuramente la riduzione ideale del socialismo operata da Pavese si scontrava con la natura “mitica” stessa della militanza comunista, che non voleva essere distruttrice di miti, semmai mitopoietica (e non nel senso umanistico e didattico di «mettere in grado il popolo, tutto il popolo, di produrre questa cultura», come auspicava lo scrittore in un articolo per “Rinascita”).

Dall’altra è pacifico chiamare in causa motivi personali, dal momento che il socialismo ideale di Pavese venne sempre accolto se non in modo apertamente ostile, con freddezza e scherno. È dunque probabile che le delusioni sentimentali si innestarono sui fallimenti esistenziali e lavorativi. In tale contesto non era comunque possibile una salvezza attraverso l’arte, nemmeno con la trovata di fondere naturalismo e simbolismo nella “realtà simbolica” rappresentata dai romanzi della “maturità” (1947-1949). I compagni (di partito) e le compagne (di vita) non glielo avrebbero mai concesso (come, col senno di poi, dimostra purtroppo anche la semi-mistificazione jesiana): Pavese fu sì quindi vittima della “religione della morte”, ma solo di quella praticata dagli altri.

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