Leggo che Vittorio Sgarbi è confinato a letto dalla depressione, non riesce più a leggere, è deperito, e sta sprofondando nel niente. A me non piace millantare chissà quali conoscenze né raccontare gli affari della mia vita privata (a meno che non abbiano rilevanza pubblica) ma a quest’uomo mi lega una particolare amicizia ormai di lunga data, che si è interrotta semplicemente perché a un certo punto ha cambiato numero di telefono (eppure lo aveva fatto altre volte sempre ricontattandomi) e ora giace come un’ombra in ricordi lontani, in anni che ormai (2007? 2009? 2011?) non riesco più nemmeno a immaginare (saranno davvero esistiti poi? Ditemi una qualsiasi cosa che sia successa dal 2002 al 2020).
Ci sentivamo spesso (almeno tre-quattro volte all’anno!) con Sgarbi, ma erano chiacchierate interminabile, di ore e ore: probabilmente lui apprezzava il fatto che lo considerassi “solo” un intellettuale, non un “animale da palcoscenico” o amenità del genere. Inoltre, eravamo quasi etnicamente affini, perché qualche goccia del mio sangue rimanda a Ferrara e lui, a distanza dai riflettori, è sempre stato profondamente emiliano nei modi, nel parlare e nella mentalità.
A proposito di “etnia”, mi piace ricordare che ai tempi in cui i giornali si misero a parlare di una serie di “ricatti a luci rosse” messe in atto da tale Helg Sgarbi, un “gigolò” svizzero di origine ebraica che filmava di nascosto i suoi connubi con certe damazze “ariane” (come Susanne Klatten, proprietaria della Bmw) e per discolparsi disse di volersi vendicare, per conto dei suoi avi, di chi aveva “collaborato coi nazisti”, io, che non ero neppure tanto in confidenza con Vittorio, gli dissi: “Ehi, non sapevo che fossi un ebreo!”.
Non voglio rivelare troppi dettagli di quella discussione, tuttavia ricordo che il Nostro non fu molto lieto delle mie sparate (del resto quando parlavamo ero sempre ubriaco, ma anche lui beveva molto, specialmente a ore tarde) e alla fine anche quando cercai di “torchiarlo” con domande del tipo “Vittorio ma tu sei davvero un [israelita] oppure no?”, lui mi intortò con rimandi a Umberto Saba (la triestinità come più alta espressione universale dell’ebraismo!) e alle sue imprese “ecumeniche” in qualità di sindaco di Salemi, dove cercò di creare una città-monastero nella quale cristianesimo, islam e giudaismo potessero incontrarsi.
Lo irritai davvero citando anche la professione di suo padre (“I farmacisti sono tutti ebrei”), che all’epoca non era ancora entrato nella storia della letteratura italiana con le sue magnifiche memorie, e alla fine riuscì davvero a farlo inalberare, cosa che nel privato accadeva raramente, rispetto alla “maschera” pubblica che, come probabilmente già saprete, Vittorio copiò da un suo professore psicopatico che riusciva a farsi ascoltare da tutti “sclerando” a tempo debito.
(Per chi avesse dubbi su come potessi conoscere l’identità del padre di Sgarbi prima che diventasse “famoso”, posso dire di aver visto -a debita distanza!- anche la stanza dove il Nostro ha passato la sua adolescenza, nella quale non si poteva nemmeno camminare per la quantità di volumi accatastati).
La discussione, nervosissima, si concluse con un complimento mascherato da insulto: “Se tu non fossi il tipo umano opposto, potresti essere il Céline del XXI secolo“. Qui è giusto spendere qualche parola su ciò che intendesse dire Sgarbi: egli era propugnatore (ma credo lo sia ancora) di una rigida dicotomia fra tipi umani, che non saprei nemmeno come definire. Cesare Pavese parlava degli “olimpici” in contrapposizione a se stesso, riferendosi a quei poeti in grado di governare le più tremende passioni. In verità le categorie erano più pirandelliane (non vorrei scomodare Totò con gli “uomini” e i “caporali” perché in effetti non c’entra nulla).
Solo per farvi capire, adotterei le trite definizioni di “apollineo” e “dionisiaco”: Louis-Ferdinand Céline era un dionisiaco gaudente al pari di Klimt, Rimbaud, Caravaggio, mentre il sottoscritto era un vieto apollineo della stessa pasta di un Goethe (che pure Pavese includeva tra i suoi enigmatici “olimpici”), un Dürer, un Manzoni, ma soprattutto uno Chateaubriand, con quella patina di cattolicesimo reazionario che talvolta lo infastidiva, nonostante con lui abbia avuto discussioni decisamente profonde sulla religione.
In effetti, per raccogliere gli spunti sorti da certe chiacchierate servirebbero tomi su tomi: si partiva sempre da una suggestione estemporanea e si finiva per discutere dell’universale. Per esempio, con gli amici -non so nemmeno se dovrei dire certe cose- si vantava di essere un discendente del Cavallini per parte di madre, la signora Rina, e una delle prime volte in cui discutemmo assieme, pur ignorando completamente questo suo “ticchio”, mi venne da citare lo splendido affresco absidale di San Giorgio in Velabro, che per me rappresenta in ogni suo millimetro l’apoteosi del Dugentesco.
Da lì nacque un confronto serrato sul senso della religione, e Sgarbi mi illuminò con una riflessione che poi avrei fatto mia: non so chi gli avesse detto, se un monaco tibetano o qualche figura del genere, che il vero modo di essere “buddhista” per un cristiano fosse quello di abbracciare in toto la fede in cui era cresciuto, ma fu in quel momento che egli rivalutò la dimensione religiosa dell’arte di cui si era sempre occupato, impegnandosi, almeno a livello mediatico, in prese di posizioni inedite a favore del cattolicesimo, le quali suscitarono un certo stupore in chi lo aveva sempre creduto un mangiapreti.
La cosa singolare è che qualche tempo fa mi è capitato di parlare con un vero intellettuale buddhista, cioè uno che sin dall’infanzia ha avuto a che fare con lama e datsan così come noi abbiamo a che fare con parroci e oratori, il quale mi ha confermato che il cristiano che rispetta il proprio dharma, cioè conserva e tramanda la religione dei padri, è più “buddhista” di chi si converte per moda o spirito di ribellione, abbandonando la retta via per strade ignote.
Quanto è profonda la sapienza sgarbiana… Per l’ennesima volta, ne stavo parlando al passato, eppure Vittorio è una presenza viva in tutti i nostri cuori: chi non ricorda qualche suo sclero, una frecciatina assurda, un delirio di erudizione e fantasia… Mi auguro sinceramente che si riprenda da quel vizio tanto assurdo quanto la poesia che è la depressione, e torni almeno a occupare il ruolo che gli è stato conferito da chissà quale misteriosa congiuntura esistenziale. Sarebbe il suo modo di adempiere al dharma, cioè raggiungere la santità, senza lasciarsi uccidere da un’acedia troppo “apollinea”….
Grande Vittorio Sgarbi.
Ha ragione quando diceva che Ferrara è una città morta.
Ormai a Ferrara di Buono sono rimaste solo le biblioteche e gli appartamenti che ospitano “dispensativi di Felicità”.
celine gaudente? ho letto che non dormiva, mangiava poco ed era un nevrotico. chiavava sì ma a quei tempi forse anche un sub7 come me avrebbe trovato un po’ di figa. comunque, bel pezzo.
Perché gli incelloni devono leggere ogni cosa nella prospettiva dell’incellitudine e continuare a ripetersi i mantra “conta solo il belfaccino “ o “sotto il 7 non è vita”?
È possibile essere intellettuali oggigiorno, se questa ossessione puerile offusca la mente, inquina il pensiero di fronte a OGNI accadimento?
per citare lo Scrittore: “com’erano pesanti!”. si scherzava ovviamente. esprimevo solo un dubbio sulla definizione del Celine uomo come gaudente.
Se la sinistra si fosse aperta agli incel invece di offenderli e denigrarli, accettandone parzialmente almeno alcune richieste oppure cercando di farne un dialogo costruttivo le varie sinistre avrebbero avuto un valanga di probabili voti visto l’aumento di incel nel mondo occidentale.
Invece la loro superbia gli fa fatto perdere un possibile bacino di elettorato.
il 120% degli intellettuali, al risveglio, ha sempre pensato “Le femmine ci devono sesso”. Una gradevole giornata a voi, messere.
Il monaco buddista non sará stato l’amuci di Sgarbi il buffo Guareschi?
Invidio che hai questo tipo di conoscenze, sul serio.
Ho notato che il Vittorio fosse repetinamente caduto in senescenza, forse per aver capito che il tempo sta per scadere o semplicemente perchè non ciula più, avendo avuto un cancro alla prostata.
Lasciami dire, che facendo una riflessione generale, la depressione aldilà del fattore biologico- ereditario è una sorta di frattura interna, un conflitto tra ciò che senti di essere nel profondo e ciò che invece riesci a esprimere o che gli altri percepiscono di te. E il proprio pensiero e in qualche modo il proprio essere, che non corrisponde ed disconnesso a ciò che sei veramente, a cui si aggiungono anche dei limiti strutturali-patologici che non fanno realizzare veramente il proprio essere e anzi fa apparire all’esterno, l’opposto di come si vorrebbe e talvolta finendo per indossare una maschera tragica e grottesca.
Sembra che il “vero io” – magari fatto di desideri, potenzialità o una versione più autentica di te stesso – sia intrappolato o soffocato da qualcosa che non controlli del tutto, forse quei limiti che ho detto poc’anzi. E questo contrasto tra ciò che sei dentro e ciò che appare fuori che amplifica il senso di isolamento o di incomprensione. È come se la depressione, o questi limiti, ti costringessero a recitare un ruolo che non hai scelto, mentre il tuo essere reale rimane nascosto o inascoltato. E avere una mente arguta e erudita costretta a vivere in un’umanità mediocre – eufemismo – esaspera questa frattura.
Insomma, ho voluto prendere sputo da questa storia per poter fare una discussione più ampia, una mia riflessione che ho voluto condividere.
Meditate gente
Senza alcun dubbio sarà l’effetto del siero magico