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Il mito dell’inclusione ha disintegrato la scuola italiana

Il 13 gennaio 2024 lo storico Ernesto Galli della Loggia, in margine a una recensione al volume di un insegnante sulla scuola italiana ha pubblicato sul “Corriere della Sera” un breve commento riguardo la cosiddetta “inclusione”:

«La scuola italiana è il regno della menzogna e finché resterà tale non potrà che peggiorare. Sulla carta tutto è previsto, tutto funziona, e alla fine tutti sono promossi. Ma come si legge nelle pagine chiare e documentate di questo libro di Giorgio Ragazzini (Una scuola esigente, Rubettino, p. 174, € 15) insegnante fra i fondatori del benemerito “Gruppo di Firenze”, la realtà è ben diversa. A cominciare ad esempio da quella che si cela dietro il mito dell’inclusione. In ossequio al quale nelle aule italiane – caso unico al mondo – convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, anche ragazzi disabili gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo».

Queste righe hanno suscitato SOLO polemiche e attacchi (a ennesima dimostrazione come un qualsiasi dibattito sul tema sia da decenni un tabù assoluto), costringendo lo storico a fare mea culpa sulle stesse pagine del “Corsera”, occasione che egli ha comunque intelligentemente colto per rilanciare i punti dolenti dell’inclusione: in primis, l’incredibile eterogeneità della categoria rappresentata da tale espressione, che sembra in effetti dettata più da fattori ideologici che scientifici o pedagogici; poi l’impreparazione della maggior parte degli insegnanti di sostegno, che di solito svolgono questo compito solo come “porta di servizio” per passare di ruolo più facilmente; infine la necessità sempre più impellente di reinserire gli alunni con gravi disabilità mentali o fisiche “in un’istituzione capace di prendersi cura di simili casi in modo più appropriato e scientificamente orientato“.

Partiamo allora dal concetto di “inclusione”, così sintetizzato da Galli Della Loggia:

«Inclusione, per chi non lo sapesse, significa la presenza nella medesima classe, accanto agli altri allievi, dei cosiddetti allievi con Bes (sta per Bisogni Educativi Speciali): una vasta categoria che comprende i disabili con disabilità lieve media o grave: ad esempio, dai soggetti affetti in vario grado da dislessia o disgrafia medicalmente certificata a quelli con forme di pronunciata disabilità sensoriale o intellettiva; nonché gli allievi di origine straniera non parlanti la nostra lingua».

Nella definizione stessa si annida la menzogna. Partiamo da una riflessione basilare: anche il sistema più efficiente non potrebbe comunque permettersi di gestire gli alunni “speciali” nel momento in cui diventa obbligatorio gestire tale “specialità” in un contesto ordinario. Per fare un esempio concreto: prendiamo una persona assolutamente motivata per questo impiego, che addirittura prende un master in logopedia (o qualche altre specializzazione). Alla prima esperienza le capita un ragazzino che non sa pronunciare la “S” o inverte le vocali delle parole che legge: grazie al sostegno di una “professionista” il discente riesce a risolvere agevolmente i propri problemi.

Nel secondo ciclo le appioppano un alunno psicotico che sclera ogni dieci minuti, aggredisce compagni a caso cercando di strozzarli o rubando le forbici dalla cattedra per colpirli, e finisce per prendere a calci e morsi l’insegnante stessa quando tenta di bloccarlo. Che si fa? Si chiamano degli esterni per “certificare” chissà che, e alla fine gli esperti concludono che l’alunno è perfettamente integrabile nel contesto scolastico e che gli insegnanti probabilmente non sono in grado (o non hanno voglia) di fare il proprio lavoro. Dunque lo scolaro schizofrenico non solo non può essere portato fuori dall’aula, seppure l’insegnante abbia notato che le sue “crisi” aumentino di intensità e frequenza a contatto con altri individui, ma non può neppure essere fermato con il minimo di coercizione possibile, perché in tal caso il docente potrebbe persino rischiare qualche strampalata accusa di “abuso”.

No, non è fantasia, fidatevi. Purtroppo certe scene da manicomio giudiziario, a cui ormai si assiste fin dalla primaria, stanno diventando la realtà quotidiana per il corpo docente. Il quale, oltre a ciò, deve fare il conto con una realtà totalmente stravolta dall’immigrazione selvaggia: neanche classi in cui il 90% degli alunni è di origine straniera fanno più “notizia”. E pure in tal caso lo storico del Corsera ha qualcosa da osservare:

«È assolutamente ragionevole pensare che per un bambino bengalese che non sa una parola d’italiano la via migliore per apprendere la lingua sia quello di immetterlo in una classe di coetanei italofoni. Ma se si tratta di un bambino solamente: se si tratta invece di dieci bambini (come ormai tanto spesso in molte zone del nostro Paese) è sicuro che valga la medesima cosa? O non accadrà forse che quei dieci bambini bengalesi saranno tentati di continuare a parlare bengalese tra di loro piuttosto che attaccare discorso con un loro compagno italofono? E non sarebbe allora meglio che i bambini di origine straniera prima di fare ingresso in una qualunque classe di una nostra scuola seguissero ad esempio per tre mesi un corso intensivo d’italiano? Per quale assurda ragione porre un simile problema significa apparire quasi un fautore dell’apartheid?».

Sono considerazioni condivisibili alle quali però si può aggiungere che, specialmente nel caso di bambini stranieri, il loro inserimento in un contesto in cui, per dire, 18 alunni su 20 parlano a scuola una lingua differente da quella che si usa a casa potrebbe avere ripercussioni anche da un punto di vista cognitivo.

È vero, infatti, che molte province d’Italia sono state “colonizzate” da magrebini, bengalesi, ucraini, romeni e albanesi, ma non è detto che in una stessa classe si possa presentare la situazione di dieci alunni della stessa origine: il risultato, anche involontario, è sempre all’insegna del fatidico melting pot. (L’ipotesi di Galli Della Loggia non è comunque impensabile, se solo si considera il fatto che ci sono genitori stranieri che nel fine settimana mandano i propri figli da insegnanti “privati”, non si sa con quale qualifica, a scopo sia di erudirli con i sacri precetti dell’islam che insegnarli l’alfabeto del loro Paese d’origine e della religione dei loro padri, sia esso appunto bengalese o, naturalmente, arabo).

Le conseguenze di tutto ciò non possono essere le stesse prospettate da coloro i quali pensano che gli esseri umani siano tabulae rasae da scarabocchiare come si vuole: è più probabile che siano i pochi alunni “indigeni” rimasti ad assorbire le abitudini linguistiche dei compagni di origine straniera, come i suoni fortemente aspirati dell’arabo o l’approssimante alveolare dell’albanese (la loro “r” moscissima, per intenderci), lasciando da parte concordanze, preposizioni e congiuntivi (perché in questi casi dal docente di turno si pretendono direttamente i miracoli).

Anche solo discutendo per sommi capi si evince come questa “inclusione” sia la solita favola ideologica nata dalle paranoie di quegli stessi che non volevano “integrare” alunché, ma solo “disintegrare” una società che consideravano “escludente” con ricatti morali e terrorismo psicologico.

Le reazioni scomposte alle blandissime osservazioni di Ernesto Galli Della Loggia (“Perché mai il solo porsi una simile domanda deve essere equiparato quasi a una pagina del Mein Kampf?”) dimostrano che il re è nudo: l’espressione è abusata, ne sono consapevole, ma è talmente evidente che l’inclusione non abbia prodotto nemmeno un risultato da poter vantare a mo’ di “trofeo” (peraltro non si capisce quale dovrebbero essere questi “risultati”) che attualmente basta solo additare una qualsiasi incongruenza per far andare fuori di testa gli “inclusivisti” (che forse non disdegnano di mandare comunque i loro figli in scuole “esclusive”).

L’accusa di “nazismo” casca a proposito, perché tale è il terrorismo psicologico di cui si parlava. Visto però che più di un dibattito sembra una lite tra bambini (“speciali” o meno), è allora agevole fare “specchio riflesso”, e affermare che in fondo anche voler “includere” il “diversamente abile” rischia di svilire la sua assoluta e originalissima “diversità” per meri scopi utilitaristici (come renderlo abile a un qualche “compito”, dal leggere e saper far di conto all’infilare una spina in una presa elettrica senza far danni).

Allora pure questo è “nazismo”, alla luce soprattutto del fatto che la palingenesi che avrebbe dovuto rendere la società più “inclusiva” non è avvenuta e allora sostanzialmente i rivoluzionari falliti stanno mandando gli “esclusi” a integrarsi in un sistema ingiusto, selettivo, iniquo, immorale ecc (per chi volesse proseguire, abilista sessista razzista sessofobo machista omofobico transfobico omolesbobitransfobico ecc…).

La conclusione perciò è abbastanza semplice: ripristiniamo scuole speciali e classi differenziali con tutti i crismi più avveniristici e all’insegna dei più alti ideali di tolleranza, accoglienza, comprensione, umanitarismo e altruismo. Per il bene degli abili, dei diversamente abili e degli ugualmente abili.

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