Il mito della bellezza interiore

Socrate come Sileno (XVII sec., fonte)

Fu una donna, Diotima, che insegnò a Socrate la scienza dell’amore spirituale; e fu Socrate, il divino Socrate, che, per eternare a suo piacimento il dolore della terra, trasmise al mondo, attraverso i suoi discepoli, questa scienza funesta.

Per una volta ha detto giusto persino Schopenhauer: il mito dell’amore spirituale è una tragica eredità del platonismo che ha impantanato il pensiero occidentale nella superstizione della “bellezza interiore”. Il motivo risalta nell’altro celebre passaggio del Simposio in cui Alcibiade paragona Socrate alla statua di un Sileno (che a dispetto dell’orribile apparenza esteriore all’interno custodisce un’immagine divina), sul quale non ci soffermiamo per evitare la tentazione di speculare sul fatto che a esaltare le “virtù nascoste” del filosofo sia un virulento pederasta. In ogni caso fa onore al pensatore de Il mondo come volontà e rappresentazione di non aver circoscritto le responsabilità dell’insorgere di tale credenza alla teologia cristiana, che in verità, specie nella sua dimensione cattolica, ha sempre tentato di bilanciare la deriva platonica con la promessa della resurrectio carnis.

Ai nostri giorni il mito si incarna nell’esaltazione della personalità, del carisma, della confidenza (singolare espressione tornata in auge quasi in forma di anglicismo, ché una volta era perlopiù associata alla maleducazione: “poca confidenza!”, si intimava allo scocciatore e all’importuno): il veleno platonico è perciò ancora in circolo, anzi ha trovato nuove modalità in cui manifestarsi attraverso la cosiddetta “realtà virtuale”.

Un esempio ormai classico è quello dell’uomo che si nasconde dietro a un avatar o una maschera internettiana e riesce ad approcciare le rappresentanti dell’altrui sesso solo in virtù, per l’appunto, della sua “personalità”: quando tuttavia le sue “ammiratrici” scopriranno che l’interiore non corrisponde all’esteriore, cioè che un carattere attraente non combacia con un volto “all’altezza”, alla loro delusione subentrerà l’astio. Esse si sentiranno ora inconsciamente portate a investire le caratteristiche morali e comportamentali dell’interlocutore della repulsione estetica che le suscita, sia per lo sforzo intellettivo a cui la mancata corrispondenza le ha costrette (per questioni di biologia evoluzionistica il cervello delle femmine umane considera un volto poco armonico come indice di una potenziale minaccia, assimilando le attenzioni di un maschio non attraente al pericolo di morte), sia per l’imbarazzante dilemma imposto dalla situazione in cui si sono cacciate: o fare estrema violenza al proprio istinto per separare bruttezza esteriore e bellezza interiore, oppure accettare i propri limiti biologici e apparire inevitabilmente “superficiali” a una società intrisa di platonismo estetico.

Per portare un caso concreto, segnaliamo l’imbarazzante confessione di una donna che, rievocando le  sue esperienze di appuntamenti online, racconta di essersi imbattuta in un tizio che dal vivo non corrispondeva perfettamente alla fotografia (magari photoshoppata) del suo profilo, sentendosi così autorizzata a commentare in tal guisa la propria “disavventura”: “Nella foto sembrava bellissimo, poi però appena l’ho incontrato dal vivo subito mi sono domandata dove fosse finita quella personalità che avevo visto nella foto”.

Molte donne purtroppo non si rendono nemmeno conto di ammettere che la “personalità” a cui sono interessate si può cogliere da un’immagine. Peraltro tale tendenza deleteria è stata anche ritratta “in modo plastico” in uno pseudo-reality di qualche anno fa, Dating in the dark (proposto in tutta la anglosfera), dove a una coppia di sconosciuti veniva chiesto di incontrarsi “al buio” e valutare l’attrazione reciproca al di là dell’aspetto fisico (notiamo en passant che nel concetto di “bellezza interiore” possono benissimo confluire anche le abilità amatorie: non parliamo solo di simpatia o intelligenza). Bene, il classico scenario della trasmissione era quello in cui le concorrenti si infatuavano del partner “a lume spento” (acconsentendo persino a effusioni “spinte”), salvo poi rimanere letteralmente traumatizzate una volta poste di fronte al seduttore ignoto… Su Youtube quasi tutte le collezioni di worst moments sono state cancellate per motivi di copyright, ma nel video che segue a partire dal quinto minuto troverete un paio di esempi (“L’alchimia si trasforma in merda non appena lei vede la sua faccia”).

Del resto, i sostenitori del luogo comune della personalità inconsapevolmente le conferiscono un ruolo “compensativo”: il divieto di giudicare un libro da una copertina implica comunque che debba essere un buon libro. A priori resiste sempre la contezza che l’attraenza fisica rappresenti un valore superiore rispetto ad altre qualità: la personalità giunge perciò a sopperire alla mancanza di tale caratteristica ma in ultima analisi non sembra essere di per sé preferibile ad altri requisiti.

Una volta compresa l’origine di tale superstizione culturale, bisogna giungere alla conclusione che migliorare la propria personalità rispetto al proprio aspetto, finendo addirittura per trascurarlo, è un vero e proprio auto-sabotaggio. Da una prospettiva maschile dovremmo aggiungere che un uomo ha tutto il tempo per acquisire questa fantomatica “personalità” nel corso della propria esistenza: l’esempio più scontato è quello dei divi dello spettacolo, che grazie al loro aspetto riescono a ogni generazione a conferirsi un’aura di savoir-faire o persino saggezza. Raramente un uomo attraente si sentirà apostrofare come “stupido”: anche un conclamato deficit di intelligenza nel suo caso verrebbe ugualmente attribuito alla svogliatezza o all’incapacità, per motivi indipendenti dalla sua volontà, di esprimere appieno le proprie potenzialità. D’altro canto egli avrà decine di occasioni per dimostrare la propria “personalità”: se si limiterà in tal senso sarà proprio per la consapevolezza che la bellezza esteriore può davvero sopperire a tutto il resto.

Mi rivolgo in particolare ai cultori delle “sudate carte”: non c’è verso che esse possano compensare mancanze di altro tipo. Da una prospettiva più ampia, l’arte, intesa in senso lato, è diventata “consolatoria” solo con l’ascesa dell’industria culturale e la sua conseguente riduzione a bene di consumo. In tal senso il veleno platonico si è innestato su altre tendenze dell’ora presente (compresa la realtà virtuale a cui abbiamo accennato), come la presunzione di una compatibilità sentimentale basata sugli “interessi comuni”, degenerazione relativamente recente che ha avuto come prodromi la coming-of-age literature di stampo anglosassone (pensiamo ad Alta fedeltà di Nick Hornby) e il romanticismo da sit-com americana, per poi concretizzarsi nel nuovo spazio offerto dalle nascenti comunità online, prosperanti sulle precedenti forme di organizzazione della produzione che includevano l’eventualità dell’insorgere di relazioni nei luoghi di aggregazione (anche tali connubi rappresentano per certi versi un “mito”, se pensiamo a come la saggezza popolare abbia immediatamente rimpiazzato l’adagio “moglie e buoi dei paesi tuoi” col “mai mischiare amore e lavoro” in concomitanza con l’aumento dell’occupazione femminile).

Nonostante l’appetito sessuale degli uomini sia meno selettivo di quello femminile, una strategia riproduttiva basata sugli “interessi comuni” risulta altrettanto fallimentare per un maschio, nella misura in cui non saranno le esperienze culturali consumate in compagnia a rendere una relazione stabile o duratura: al contrario, anche le “affinità elettive” potrebbero facilmente mutarsi in un pretesto per stigmatizzare la banalità o la scontatezza di una vita di coppia non suggellata dalla reciproca attrazione fisica.

In conclusione, qualsiasi individuo non attraente che voglia giocare la carta della “personalità” e dell’auto-miglioramento interiore rischia di peggiorare la propria condizione. L’unica scelta possibile non può che essere quella di provare a migliorare il proprio aspetto: non esistono alternative, nemmeno l’ipotesi di “imbruttimento interiore”, poiché la magra consolazione che ne deriverebbe sarebbe quella di evitare che le persone provino avversione nei propri confronti per averle costrette al faticoso esercizio mentale di distinguere due livelli di “bellezza”.

A scanso di equivoci, il miglioramento dell’aspetto deve partire necessariamente dal viso. Non serve perdere peso o avere un bel fisico, se non nella misura in cui esso potrebbe contribuire a migliorare la qualità del volto (per esempio, facendo sparire il grasso in eccesso): per certi versi anche un corpo palestrato su cui è attaccata una faccia non attraente risulterebbe espressione di “bellezza interiore” (si intende come testimonianza di risolutezza, perseveranza, tenacia eccetera). Per quanto concerne l’altezza, secondo i criteri odierni chi è al di sotto del metro e ottanta deve considerarsi alla stregua di un pigmeo, ma non per questo potrebbe in alcun modo auspicare l’inclusione in qualche “categoria protetta” del politicamente corretto: per risolvere tale disabilità non resterebbe che la chirurgia, seppur non del tutto priva di rischi. Stesso discorso per chi è affetto da calvizie: essendo una malattia fondamentalmente maschile, non sono ancora state pensate cure adeguate – noterete qui ancora l’azione del veleno della “bellezza spirituale” intersecato con le attuali tendenze ginecocentriche.

Una volta migliorato l’aspetto fisico, ci si accorgerà subito che per attrarre gli individui che discutono continuamente di “personalità” non serviranno chissà quali capacità oratorie o intellettuali: basterà solo la fiducia in se stessi garantita dalla consapevolezza di essere attraenti, dalla quale scaturiranno l’espansività, la cordialità e il “saperci fare”. Se qualcuno poi continuerà a far finta di non capire e a illudersi che la “personalità” conti qualcosa, allora possiamo solo augurargli che il percorso di automiglioramento lo conduca a rendersi conto di aver messo in atto una semplice strategia di coping, e che l’unico modo di considerarsi “belli dentro” sia la cognizione di aver intrapreso il classico percorso della coscienza hegeliana che si riconosce come spirito.

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