Il mondo nuovo degli Huxley: da Aldous a Julian

Il dibattito sul celebre romanzo di Aldous Huxley Brave New World (Il mondo nuovo, 1932) è tuttora aperto: l’ispirazione dell’opera è ambigua, tanto che resta il “mistero” sul reale significato che l’Autore abbia voluto conferirle. Giusto per fare un nome, George Orwell non si capacitava di come la società immaginata da Huxley potesse essere così “immacolata”, priva della rapacità e della violenza che a suo parere caratterizza la natura del potere (ricordiamo la famosa citazione da 1984: The object of power is power). Questo è già di per sé un punto controverso, che ha fatto sorgere in qualcuno il sospetto che l’opera rappresenti più un’utopia che una distopia, nel senso che l’Autore pare quasi voler conferire i connotati dell’inevitabilità e della necessità al suo Mondo Nuovo, ponendolo in contrasto col disordine causato da una gestione del potere umana troppo umana.

In virtù di tutto ciò è forte la tentazione di leggere il romanzo di Aldous Huxley attraverso le idee del fratello Julian (1887-1975), che in effetti non mascherò mai i suoi propositi totalitari con i veli pietosi della fiction (pur piccandosi di essere anche scrittore). Il verbo del Fratello Maggiore (in inglese Big Brother) Julian Huxley è fin troppo chiaro: governo mondiale, eugenetica, controllo demografico ed elitismo.

Uno dei suoi contributi più cristallini è paradossalmente contenuto in un volume che negli anni ’70 in Italia venne usato come manuale in alcune scuole: Uomo Natura Ecologia (Man, Nature and Ecology, tr. it. E. Bona e M.V. Lorenzoni, Longanesi, Milano, 1974, ed. or. 1969). Nella “Presentazione” al libro, scritto a quattro mani (Keith Reid, J.A. Lauwerys, Joyce Joffe, Anthony Tucker), Sir Julian mette subito in chiaro la questione:

«All’inizio dell’esistenza umana […], l’aumento della popolazione era necessario. Ma, quando arriviamo ai tempi storici, esso comincia a produrre città affollate, prende a invadere nuove terre intatte e a incoraggiare guerre di conquista. […] Dobbiamo quindi ridurre l’indice di incremento dell’uomo a zero, se è possibile, perché ogni indice sopra lo zero significa che la popolazione cresce ancora con andamento esponenziale» (p. 9).

Maliziosamente dovremmo pensare che tale monito sia rivolto più al docente che al lettore: nonostante 380 pagine su 400 del manuale siano dedicate ad argomenti come il passaggio dalla caccia alla pastorizia o la differenza tra organismi autotrofi ed eterotrofi, J. Huxley pare suggerire che l’insegnamento fondamentale da impartire agli educandi sia racchiuso nelle venti paginette maltusiane che vanno sotto il titolo di “L’uomo sovrappopola il mondo”. Il capitolo è pura dottrina huxleyana e alcuni passaggi meritano una citazione completa, proprio perché non lasciano spazio a equivoci:

«L’uomo, privo dei benefici del controllo interno di fertilità, deve trovare una propria soluzione. Il problema è complicato. L’uomo non è preparato a fare alla propria specie quello che fa agli altri animali che sovrappopolano il loro habitat: egli non può, o non vuole, finora, sfoltire la propria specie. Deve affrontare la sua crisi senza ricorrere all’eutanasia di massa, ai bombardamenti nucleari selettivi, o ad altre “soluzioni” mostruose che sono state a volte suggerite» (p. 305).

«Il numero di individui nel mondo potrà essere nutrito solo mediante un generale abbassamento del tenori di vita ovunque, nazioni ricche comprese. […] [Solo] nell’Europa orientale, ad esempio, si trovano quozienti di natalità sia molto alti sia molto bassi. Quello dell’Ungheria è relativamente basso (15). La ragione principale di un tale basso indice è che l’aborto è stato legalizzato nel 1956 [proprio in quell’anno!, ndr]. La legge stabilisce che ogni donna può prendere una decisione responsabile del numero dei figli che vuole avere, e le permette di interrompere una gravidanza indesiderata per mezzo di aborto provocato. Leggi analoghe sono state promulgate nell’URSS, in Bulgaria, Cecoslovacchia e Iugoslavia. Negli Stati Uniti la popolazione diverrebbe stabile se si interrompessero tutte le gravidanze indesiderate» (p. 310).

«La diminuzione della mortalità è stata sbandierata come un trionfo senza uguali della scienza medica sulla natura, ma non è più, come un tempo, considerata con tale ingenuo ottimismo. Si vede adesso che si tratta di un’arma a doppio taglio, e molti cominciano a rendersene conto. Oggi, non può più essere accolta di buon grado a meno che non sia accompagnata dal controllo delle nascite» (p. 311).

«Per quanto il controllo delle morti abbia causato un incredibile calo della mortalità infantile, il fenomeno, in un certo senso, non è stato compreso in pieno. Ci vuol più di quel che si creda perché una popolazione si renda conto che i suoi bambini muoiono in numero sempre minore. Inoltre ci vuole ancora uno sforzo grandissimo per liberarsi dalle tradizioni che accompagnano il culto della famiglia numerosa. I riti della fertilità, i simboli fallici e tutto il resto sono sempre stati parte di un modo di vita» (p. 315).

«Il controllo delle nascite non era affatto sconosciuto alle società preistoriche. Sfortunatamente i metodi non sono mai stati veramente efficaci, benché a volte ingegnosi […]. In Occidente l’infanticidio era molto comune, forse più di quel che si creda. I bambini con deformità fisiche erano quasi invariabilmente esposti (basti pensare a Edipo); questa era un’alternativa estremamente efficace alla selezione naturale che non opera tra gli esseri umani con la stessa efficacia con cui opera tra gli animali e le piante. Tuttavia, per quanto gli uomini siano pieno di risorse, non hanno ancora risolto il problema che oggi ci sovrasta. C’è bisogno di un piano mondiale: ci sono troppi paesi non ancora raggiunti da alcuna forma di programmazione dei figli. […] Per quanto è possibile, è meglio pianificare un programma di limitazione delle nascite sotto l’auspicio delle autorità religiose e governative. […] Solo la Chiesa cattolica romana [tra le confessioni più importanti] ha molta influenza reale: nel 1968, l’enciclica papale Humanae Vitae è rimasta ostinatamente contraria a ogni mutamento delle norme. Nei Paesi cattolici la programmazione dei figli deve continuare, e in realtà continua, senza il beneplacito della Chiesa [e neanche quello dei Paesi stessi, ndr]» (p. 316).

«L’odierna popolazione dell’Africa è di circa 340 milioni. È aumentata rapidamente dal XIX secolo, quando i missionari si infiltrarono nel continente, portando medicine e provvedimenti che diminuirono la mortalità, ma predicando con veemenza contro ogni tipo di controllo delle nascite e contro l’aborto. La popolazione così esplose dovunque si facesse sentire la loro influenza» (p. 324).

«In molta parte della rimanente Africa indipendente, la International Family Planning Federation afferma che i governi nazionali esitano ad assumere un atteggiamento deciso, ma che se si dovessero sviluppare imprese private che persuadessero la popolazione (e alcuni tra i membri di governo) del fatto che è socialmente ed economicamente auspicabile ridurre il numero dei figli, detti governi potrebbero a lungo andare essere disposti a qualche provvedimento» (p. 326).

Sarebbe bello dilungarsi sul fatto che la “zona grigia” che un tempo predicava lo spopolamento è la stessa che oggi incolpa il popolaccio del declino demografico e propone come unico rimedio un’immigrazione incontrollata e selvaggia, ma lasciamo perdere. La dicotomia tra soluzione “mostruosa” e soluzione “umana” (in senso fantozziano?) si rispecchia nell’ambivalenza morale con cui Aldous descrive il suo governo immaginario. Come nell’alternativa luxemburghiana tra socialismo o barbarie, egli pone la questione in termini simili: o eugenetica e controllo mentale, o sterminio di massa e guerra nucleare.

Peraltro va osservato che l’intera produzione del buon Julian è densa di progetti superomistici e visioni di dominio universale modellati su quelli delle élite britanniche, ambiente in cui la dinastia degli Huxley nel giro di due generazioni è riuscit a inserirsi perfettamente. Non dimentichiamo infatti che costui fu il primo direttore dell’Unesco, carica dalla quale pare fu allontanato dopo aver espresso i suoi “piani” nell’opuscolo UNESCO: its purpose and its philosophy (1946), una piccola galleria degli orrori dove Julian attacca violentemente i “cristiani” (li chiama christened asthenics, “astenici cristianizzati”) e promuove l’eugenetica come via maestra per “sublimare” la popolazione mondiale:

«Sarà importante per l’Unesco di vigilare affinché il problema eugenetico sia esaminato con la massima cura e che l’opinione pubblica venga tenuta costantemente informata, affinché ciò che ora è considerato impensabile [unthinkable] possa infine divenire pensabile [thinkable]» (p. 21).

Nella sessantina di pagine del testo troviamo un altro pallino di Julian: la necessità di una religione universale che abbia come unico criterio morale per l’élite l’evoluzionismo, e come dogma fondamentale per le masse il collettivismo («Gli individui sono insignificanti se non in relazione alla comunità»). Tale suggestione ha accompagnato tutta la sua brillante carriera, sin dagli esordi di Religione senza rivelazione (1927), dove appunto poneva come “giustificazioni del nostro codice morale” una combinazione di freudismo e darwinismo, fino a una delle opere della maturità, la raccolta di saggi New Bottles for New Wine (1957), in cui coniò il termine “transumanesimo”:

«La qualità della gente, non soltanto la quantità, è ciò a cui dobbiamo anelare, e che quindi una politica concordata è necessaria ad evitare che l’attuale crescita demografica distrugga le nostre speranze per un mondo migliore».

Il “transumanesimo” sarebbe in sostanza una gnosi per i “rappresentati della specie” che possono perfezionarsi spiritualmente attraverso il monopolio della tecnologia, specialmente in ambito riproduttivo (sì, ancora eugenetica): questo saggio, misconosciuto e non tradotto in italiano (qui una versione apparsa solo su internet), assomiglia a una parafrasi del Brave New World di Aldous senza “fronzoli”.

Per chiudere il discorso sulla Utopia dell’idra huxleyana, evochiamo uno “splendido” passaggio di Herbert Spencer, nel quale traspare l’ordine di idee prodotto nella mente di un ottimate inglese dal darwinismo sociale (cfr. Social Statics; Or, The Conditions Essential To Human Happiness Specified, And The First Of Them Developed, 1851, pp. 454-455):

“Whilst the continuance of the old predatory instinct after the fulfilment of its original purpose, has retarded civilization by giving rise to conditions at variance with those of social life, it has subserved civilization by clearing the earth of inferior races of men.
The forces which are working out the great scheme of perfect happiness, taking no account of incidental suffering, exterminate such sections of mankind as stand in their way, with the same sternness that they exterminate beasts of prey and herds of useless ruminants. Be he human being, or be he brute, the hindrance must be got rid of. Just as the savage has taken the place of lower creatures, so must he, if he have remained too long a savage, give place to his superior”

«Mentre la prosecuzione del vecchio istinto predatorio, dopo l’adempimento del suo scopo originario, ha ritardato la civiltà, dando luogo a condizioni in contrasto con la vita sociale, esso ha comunque giovato alla civiltà spazzando via le razze inferiori di uomini.
Le forze che stanno realizzando il grande schema della perfetta felicità, non avendo nessun rispetto delle sofferenze incidentali, sterminano quelle porzioni di umanità che si frappongono sul cammino con la stessa crudezza con la quale sterminano bestie da preda e mandrie di inutili ruminanti. Sia esso un essere umano, o un bruto, l’ostacolo deve essere rimosso. Proprio come il selvaggio ha preso il posto delle creature inferiori, così deve, se è rimasto troppo a lungo un selvaggio, lasciare il posto al suo superiore»

Questo sembra il messaggio implicito propagandato dai due fratelli, che pure mantennero la fama di “filantropi” e “umanisti” per aver stabilito la labile alternativa tra huxleysmo e barbarie: in effetti entrambi poterono proclamarsi sinceramente “democratici” nella misura in cui la “democrazia” apparve ai loro occhi un mezzo utile per raggiungere gradualmente i propri scopi (la riduzione quantitativa dell’umanità al fine di perfezionarla qualitativamente).

In alcun passaggi i due parlano praticamente la stessa lingua: Aldous, in Ritorno al mondo nuovo (al quale non abbiamo nemmeno accennato perché alimenta gli equivoci invece di risolverli),

«Un governo del terrore funziona nel complesso meno bene del governo che, con mezzi non violenti, manipola l’ambiente e i pensieri e i sentimenti dei singoli, uomini donne e bambini»;

e Julian, in Tempo di Rivoluzione (1949):

«Per compiere una rivoluzione l’alternativa democratica è la più desiderabile e la più permanente; il metodo puramente totalitario a lungo andare si autodistrugge».

Dunque in conclusione Brave New World, più che una fantasia letteraria, assurge quasi al rango di “manifesto”, e non è escluso che in futuro qualcuno possa adottare anch’esso come vero e proprio “manuale” (a meno che non l’abbia già fatto a insaputa di selvaggi e inferiori).

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