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Il monopolio spirituale dell’ebraismo in Italia: dall’affaire Williamson ai funerali di Priebke

Illustrazione per una Ketubah da Essaoueira, Marocco, 1869

Il caso Williamson: dal Calvario alla Shoah

Al principio del 2009, nel pieno dei tentativi di conciliazione tra la Chiesa cattolica e gli scismatici lefebvriani, la stampa internazionale montò il “caso Williamson”, una offensiva mediatica nei confronti del vescovo britannico Richard Williamson che in una intervista rilasciata alla trasmissione svedese SVT1 negò l’esistenza delle camere a gas e affermò che solo 200-300 mila ebrei fossero morti durante l’Olocausto. Ecco i passaggi salienti del suo intervento:

«Ritengo che le prove storiche contro la tesi dei sei milioni di ebrei deliberatamente gasati nelle camere a gas, come conseguenza di una politica apposita da parte di Hitler, siano enormi. Ma ritengo che non vi furono camere a gas. Per le prove che ho studiato -non sono guidato dall’emotività- cerdo, ad esempio, che coloro che si battono contro quello che viene oggi largamente considerato come, aperte le virgolette, un “olocausto”, i revisionisti, come vengono chiamati, i più seri tra loro sono giunti alla conclusione che nei campi nazisti sono morti tra i 200 e i 300 mila ebrei, ma nessuno di loro per gassazione nelle camere a gas.
Fred Leuchter era un esperto in camere a gas. Progettò tre camere a gas per i tre Stati americani che ammettono la condanna a morte. Così lui conosceva la materia. E studiò, durante gli anni ‘80, i resti delle presunte camere a gas tedesche, come i crematori di Birkenau e Auschwitz. E la sua conclusione, la sua conclusione di esperto, fu che è impossibile che queste strutture potessero essere utilizzate per la gassazione di grandi numeri di persone. Perché il gas cianidrico è molto pericoloso. […] Una volta che lei ha gasato delle persone deve espellere il gas. Per espellere il gas ha bisogno di un camino alto. Se il camino è basso il gas va sul selciato e uccide tutti quelli che vi camminano. […] Se ci fosse stato un camino alto, allora l’ombra si sarebbe proiettata, per gran parte della giornata, sul terreno e i fotografi alleati che sorvolavano il campo avrebbero colto l’ombra di questi camini. Non vi sono mai state ombre del genere, non c’erano camini del genere. […] Mi attengo a quelle che considero le prove storiche, secondo il parere di coloro che hanno osservato ed esaminato tali prove. Credo alle conclusioni che hanno raggiunto, se cambieranno idea seguirò probabilmente il loro parere perché ritengo che abbiano giudicato in base alle prove. Ritengo che siano morti nei campi di concentramento nazisti 200 o 300 mila ebrei, ma che nessuno di loro sia morto tramite gas. […] La verità storica si attiene alle prove e non alle emozioni. C’è stato sicuramente un enorme sfruttamento. La Germania ha pagato miliardi e miliardi di marchi e adesso di euro, perché i tedeschi hanno il complesso di colpa di aver gasato sei milioni di ebrei. Ma non penso che furono gasati sei milioni di ebrei. Ma, attento, quello che sto dicendo è contro la legge tedesca. Lei potrebbe farmi sbattere in prigione prima che lasci la Germania. Spero che questa non sia la sua intenzione».

Volendo entrare -ma solo en passant– nel merito di tali avventate dichiarazioni, va osservato che il Rapporto Leuchter è tutto fuorché un documento storico attendibile: Fred A. Leuchter Jr. non era propriamente un “esperto di camere a gas”, ma un consulente dei “bracci della morte” per il governo americano. Le sue ricerche nei campi di concentramento furono all’insegna dell’improvvisazione e il suo Rapporto Leuchter ha il sapore di un Journal du voyage en l’Allemagne. Leuchter era anche un personaggio emotivamente instabile, e si lasciò strumentalizzare dai gruppi neonazisti americani. Su questo figuro, comunque affascinante, Erol Morris girò un documentario nel 1999, Mr. Death.

Per tornare a Williamson, una conseguenza immediata della sua sortita fu la denuncia per “apologia di negazionismo” (sic) presso la procura federale argentina su iniziativa del direttore locale di Newsweek Sergio Szpolski e dell’Istituto Argentino contro la Discriminazione (Inadi). A conti fatti però non gli venne intimato di ritrattare ciò che ha detto in base alle fonti inattendibili, ma solo di “confermare o smentire le sue tesi”. Per certi versi, una sorta di un Autodafé: unico esito possibile di qualsiasi processo per “negazionismo” in cui non è previsto alcuno spazio per la discussione storica (anche qualora rientrasse nelle possibilità della difesa), ma solo la ritrattazione pubblica (o la condanna). Peraltro notiamo che più di negazionismo, qui si dovrebbe parlare di revisionismo, in quanto il vescovo non nega lo sterminio degli ebrei ma lo “ridimensiona”; tuttavia l’accusa ha ormai una portata talmente ampia che può essere utilizzata per tutto: lo si osserva nella disinvoltura con cui la stampa taccia di “negazionismo” qualsiasi posizione non in linea con i tabù e le suggestioni del momento.

Non è però qui in discussione l’annosa questione del “negazionismo” né il destino dell’incauto vescovo (che dopo la prevedibile serie di vicissitudini giudiziarie ed ecclesiali ora “esercita” in una unione sacerdotale ad hoc): se vi abbiamo accennato, è solo per affrontare il cuore della nostra trattazione, che riguarda principalmente la reazione da parte cattolica. Partiamo dalle dichiarazioni di padre Federico Lombardi, all’epoca portavoce della Santa Sede, che affermò apertamente che “Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo” (Il Giornale, 30 gennaio 2009):

«“Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo”. Lo afferma il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, in una nota trasmessa dalla Radio Vaticana. […] L’accostamento tra la Shoah e il mistero di Dio e della Croce rende “tanto più grave”, per il portavoce del Papa, la negazione quando “viene dalla bocca di un sacerdote o di un vescovo, cioè di un ministro cristiano, sia unito o no con la Chiesa cattolica”. […] Infatti “è la fede nella stessa esistenza di Dio che viene sfidata da questa spaventosa manifestazione della potenza del male. La più evidente per la coscienza contemporanea, anche se non la sola”. Tutto questo, rileva la nota vaticana, “Benedetto XVI lo ha riconosciuto lucidamente nel discorso di Auschwitz, facendo sue le domande radicali dei salmisti a un Dio che appare silente e assente”».

Un collegamento così netto tra il Calvario e la Shoah, per anni avanzato da frange marginali del clero e ora proclamato dalle stesse autorità vaticane, obbliga a una digressione riguardante i percorsi attraverso i quali l’olocausto ebraico è diventato, almeno informalmente, un dogma del cattolicesimo.

Religio holocaustica

Agli inizi del nuovo secolo lo storico newyorchese di origine ebraica Norman G. Finkelstein si guadagnò una non voluta notorietà con il suo saggio L’industria dell’Olocausto (2002), che gli costò l’immediata radiazione dalla De Paul Catholic University per “negazionismo” (nonostante egli non che avesse negato o ridimensionato la Shoah, ma semplicemente sostenuto che tale evento storico fosse strumentalizzato da Israele). Nelle prime righe del volume, Finkelstein definiva distingueva l’olocausto ebraico come evento storico e l’Olocausto -con la maiuscola- come “rappresentazione ideologica”, definendo quest’ultimo “arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, Israele, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisto lo status di vittima”.

I fondamenti di questa “rappresentazione ideologica” fino al caso Williamson erano stati perlopiù politico-ideologici. Pochi intellettuali ebbero l’ardire di delinearne le caratteristiche: tra questi, ci piace ricordare Costanzo Preve (1943-2013):

«Neppure lo Stato liberal-democratico contemporaneo è in grado di permettersi uno scambio di opinioni a 360 gradi, e questo perché tutte le società – ripeto, tutte – hanno un implicito fondamento religioso: si tratta di sapere quale esso sia. Nell’Europa attuale, l’unico fondamento religioso ecumenico è la religione dell’Olocausto e del giudeocentrismo metafisico di espiazione, quindi è sottratto, sul piano giuridico e giudiziario, alla sfera della libertà d’opinione.  […] Non esistono società politiche senza fondamento religioso presupposto sottratto alla punibilità giudiziaria: in Iran, e penalmente proibito dire che Allah non esiste che, quindi, Maometto non era il suo profeta; in Europa è legalmente possibile farsi beffe di Dio, di Allah e di Maometto, ma è legalmente proibito dire che l’Olocausto non c’è mai stato» (Il popolo al potere, Arianna Editrice, Casalecchio, 2006, p. 60).

Il passaggio dal divieto di “storicizzaione” di un avvenimento storico alla sua implicita dichiarazione di non “teologizzazione” (poiché supererebbe le sofferenze del Calvario, da un punto di vista metafisico, in “simbolicità e tragicità”), adempie la “profezia” del cardinale (nato a Parigi da una famiglia di ebrei polacchi) Jean Marie Lustiger (1926-2007), riportata ne La promesse (2002), secondo il quale “il massacro e la persecuzione di Israele fu fatto dai pagano-cristiani” e che l’accusa di deicidio è in verità attribuibile ai cristiani, “per la sorte che hanno riservato al popolo ebraico, la vittima assoluta, di cui Gesù è solo un simbolo: Israele”; di conseguenza la teologia della sostituzione cristiana “è un’appropriazione abusiva e blasfema dell’elezione d’Israele”. E per citare ancora l’eminente prelato (cfr. Pourquoi Lustiger dérange, “L’Express”, 5 dicembre 2012):

“Dobbiamo credere – altrimenti Dio stesso sembrerebbe incompatibile con la sua promessa – che tutta la sofferenza di Israele perseguitata dai pagani a causa della sua elezione fa parte della sofferenza del Messia. Se una teologia cristiana non può iscrivere nella sua visione di redenzione, del mistero della Croce, che Auschwitz è anche parte della sofferenza di Cristo, allora è solo assurdità. Il massacro e la persecuzione di Israele da parte dei pagani (sarà necessario spingersi a dire “pagano-cristiani”) sono la prova della loro menzogna o della loro presunta adorazione di Cristo. Se avessimo il coraggio di parlare di deicidio in connessione con Israele e Cristo, dovremmo parlare di deicidio in relazione ai cosiddetti popoli cristiani occidentali e al destino che hanno riservato al popolo ebraico. Perché, in questo caso, ciò che si applica all’uno vale anche per l’altro: rifiuto di Cristo mentre si dà, odio per l’Elezione come Dio l’ha donata. Si può ricevere lo spirito di Gesù solo a condizione di condividere e aderire alla speranza di Israele”.

Parole che descrivono perfettamente il cammino del “giudeocentrismo metafisico di espiazione” all’interno del cattolicesimo: dalla restaurazione dell’Antica Alleanza (dunque mai revocata?), all’assimilazione della Croce stessa in una nuova versione del messianismo ebraico. Non è sicuramente da tale prospettiva che Giovanni Paolo II parlò della Shoah come di un “Golgota dei tempi moderni”, e Benedetto XVI ad Auschwitz si chiese “Dov’era Dio”; tuttavia è un fatto che anche tali affermazioni siano suscettibili di strumentalizzazione.

Un “caso studio”: i funerali di Priebke

Per saggiare l’ipotesi di un tentativo di dogmatizzazione “ulteriore” della Shoah, che rinnoverebbe le fragili fondamenta politico-ideologiche con quelle metafisico-religiose, possiamo accennare a un altro affaire che in questi ha caratterizzato in maniera “sensazionalistica” i rapporti tra Chiesa e Sinagoga: il rifiuto, da parte delle istituzioni vaticane, di celebrare i funerali per Erich Priebke (1913–2013), l’ex ufficiale delle SS (di fede cattolica) condannato all’ergastolo per aver partecipato all’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Anche qui, è interessante soffermarsi sul contesto che ha accompagnato la vicenda: in primo luogo, l’evocazione, da parte di Oreste Bisazza Terracini (avvocato per la Comunità Ebraica di Roma nel processo all’ufficiale nazista), del “concetto retributivo di pena correlata con la colpa del reo e l’entità e qualità del reato” (“Corriere della Sera”, 23 ottobre 2013). Solo da certe sfumature è possibile rendersi conto dell’ottica extra legem da cui è consentito partire quando si affronta il tema Shoah: il fatto stesso che Priebke abbia potuto godere di un generoso regime di arresti domiciliari (che gli consentì, tra le altre cose, anche di ricevere un invito a presidiare come giudice a un concorso di bellezza) è la prova stessa che in Italia ogni discussione sulla “giustizia retributiva” è considerata tabù, manifestazione di una mentalità gretta, giustizialista se non manettara. A meno che, naturalmente, il reato non abbia a che fare con fatti risalenti a oltre settant’anni fa: in tal caso, non c’è “politicamente corretto” che tenga.

Questo solo per evidenziare nuovamente la zona franca ideologico-politica che caratterizza l’approccio alla questione. Ma torniamo alla Catholica, soffermandoci sulle dichiarazioni che l’arcivescovo Bruno Forte rilasciò sempre al “Corriere” (Ma la Chiesa può Rifiutarsi? Sì se c’è pubblico scandalo, 13 ottobre 2013):

«Celebrare i funerali significherebbe dire che quest’uomo [Priebke], pur essendo un peccatore, era in comunione con la Chiesa. E questo non avrebbe senso, sarebbe un’ambiguità inammissibile: come si fa a ritenere in comunione con la Chiesa uno che fino all’ultimo ha negato pervicacemente la Shoah? Priebke non voleva essere in comunione nella condanna senza appello, ribadita più volte dalla dottrina, della Shoah come male assoluto, radicale. Così la Chiesa mostra la sua totale vicinanza alla lettura che della Shoah dà il popolo ebraico» .

Torna dunque nuovamente, forse in maniera più esplicita che non nelle parole di padre Lombardi, l’accostamento tra negazionismo (inteso, sempre per precisare, come negazione della versione storica ufficiale dell’olocausto ebraico) e peccato. Le dichiarazioni di Forte tuttavia sembrano caratterizzata da un eccesso di zelo rispetto a quelle di Lombardi, pur partendo da un’identica posizione “difensiva”: il fatto di ridurre le colpe di un uomo esclusivamente alle opinioni espresse nei confronti di un evento storico è di per sé surreale (a meno che, sempre se siamo ancora cattolici) non si tratti della Resurrezione), ma ancor più sconcertante suona sulle labbra di un arcivescovo, il quale, anche in qualità di teologo, avrebbe perlomeno dovuto accennare alla condanna ultraterrena che spettava all’ex SS per essersi macchiato di sangue innocente.

Quest’ultimo punto è decisamente il più problematico. Da parte cattolica esiste ormai un evidente timore, se non terrore, a spendere una parola sui Novissimi; al contrario, l’ebraismo italiano da tale prospettiva sembra aver portato la propria testimonianza al livello “ulteriore” a cui accennavamo. Non è un caso che durante quella controversia, gli unici ad aver ricevuto il benestare mediatico all’utilizzo di un linguaggio religioso siano stati proprio gli ebrei: tanto per citare, l’allora  presidente della Comunità di Roma Riccardo Pacifici parlò di “angeli delle Fosse Ardeatine che si occuperanno di Priebke per l’eternità”, mentre il sopravvissuto di Auschwitz Piero Terracina invocò “il giudizio di Dio” (Muore a cento anni il boia delle Fosse Ardeatine, Corriere, 12 ottobre 2013). Lo stesso Pacifici, poi, ci tenne a precisare che “non si può essere antisemiti se cattolici”: un passo avanti nel processo di sacralizzazione.

La Shoah verità di fede?

Anche volendo interpretare questa rinascenza religiosa ebraica come un fatto positivo per la cultura italiana, non si può ignorare quanto essa abbia indirettamente beneficiato della decadenza del concetto di “laicità” – che proprio con l’affaire Priebke ha dato il peggio di sé, immortalandosi nell’immagine di una folla che prende a calci e sputi un feretro. La razionalità e il buon senso abbandonano lentamente il discorso pubblico e la cosiddetta “religione civile” si disgrega sotto il peso di spinte fideistiche “vecchia maniera”. Si delinea già all’orizzonte uno scenario in cui da una parte il legame tra religione e identitarismo si farà sempre più saldo, e dall’altra le istanze per una teologia globale impongono a tutte le fedi di adottare una prospettiva che non si “riduca” ai propri simboli (nel caso del cattoliceismo, alla Croce). Senza voler dire troppo, potremmo all’occorrenza citare il teologo Harry James Cargas (sempre cattolico – ché se ci mettessimo a spulciare tra le dichiarazioni dei protestanti sarebbe un profluvio), che in tempi non sospetti affermò che “l’Olocausto è la più grande tragedia per i cristiani dal tempo della crocifissione: nel primo caso Gesù è morto, nell’ultimo, si potrebbe dire che è morto il cristianesimo” (A Christian response to the Holocaust, Stonehenge Books, New York, 1982, p. 32). Cargas non fu però completamente chiaro sull’eventualità che il cattolicesimo includesse la Shoah tra i suoi dogmi come “strategia di sopravvivenza”: dalla sua avversione per l’ipocrisia vaticana nel dialogo ebraico-cristiano dovremmo dedurre che, a fronte di un giudeo-cristianesimo anche fortemente imperniato sul primo elemento, egli tendesse più al puro e semplice exitus del cattolicesimo.

Per concludere, possiamo in parte far nostri i dubbi espressi dall’intellettuale argentino Mario Caponnetto all’epoca dell’affare Williamson nell’articolo La Shoah, ¿Verdad de Fe? (Cabildo, 30 gennaio 2009):

«Non sapevo che fosse stato aggiunto un nuovo articolo al Credo. Non lo sapevo, in realtà, fin quando non ho letto il quotidiano ufficiale (o ufficioso) della  Santa Sede, L’Osservatore Romano, del 26-27 gennaio. In prima pagina, sotto il titolo Un copione sbagliato, con le iniziali di Carlo Di Cicco (vicedirettore del quotidiano), ho trovato il seguente paragrafo: “Dall’accettazione del concilio discende necessariamente una limpida posizione sul negazionismo. La dichiarazione Nostra Aetate, che segna la più autorevole svolta cattolica nei confronti dell’ebraismo, deplora ‘gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo, dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque’. Si tratta di un insegnamento non opinabile per un cattolico”.
[…] Pertanto, se il Papa torna ad ammettere alla comunione della Chiesa chi sostiene così chiaramente il “negazionismo”, bisogna concludere che lo stesso Benedetto XVI approva il “negazionismo” – o almeno lo tollera. E questo significa, eo ipso, cancellare il Vaticano II, Nostra Aetate inclusa, ritrattare il dialogo con gli ebrei e tornare agli anatemi preconciliari.
[…] Si presume che [i cattolici] siano obbligati a fare delle distinzioni. Proprio ciò che l’articolista de L’Osservatore Romano non ammette. Per cominciare, non è vero che dagli insegnamenti del Consiglio derivi una posizione sul cosiddetto “negazionismo”, se per tale si intende la valutazione -opinabile- di un fatto storico, che di per sé è riservato alla competenza degli storici. Ancor meno può essere affermato che tale posizione risulti “non opinabile per un cattolico”, come se si trattasse di una verità di fede o di morale. Da quando la Shoah, nella sua versione ufficiale, è diventato un dogma di fede? Il negare o mettere in discussione con il metodo delle scienze storiche un fatto storico costituisce una violazione degli infallibili insegnamenti del Magistero?
Curioso. In un’epoca in cui tutto è “opinabile” e nessuno viene quasi mai sanzionato, in cui dentro la Chiesa stessa girano le più svariate proposte teologiche, liturgiche e pastorali per chi è meno portato all’ortodossia, veniamo a sapere che un cattolico non può commentare liberamente un fatto storico.
[…] Ma alla fine, cosa pretendono i nostri “fratelli maggiori”, così fedelmente sostenuti da non pochi cattolici, quei cattolici mistongos [poveri, di poco valore], come li ha definiti Padre Castellani? […] Ben presto si sentirà nelle nostre chiese la versione ampliata del Credo: “Credo nel perdono dei peccati, nella risurrezione della carne, nella vita eterna e nella Shoah. Amen”».

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