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Il nuovo illuminismo radicale contro il maschio bianco borghese ed europeo

La casa editrice Nutrimenti ha da poco pubblicato Il nuovo illuminismo radicale, libello della saggista filosofa spagnola catalana Marina Garcés, introdotto da mezza paginetta di Michela Murgia: mossa editoriale di per sé sospetta, indice tuttavia della modestia del volume sotto ogni punto di vista.

La proposta della Garcés assomiglia infatti a un collage di appunti da liceale, costellati da qualche intuizione potenzialmente degna ma buttata lì come annotazione estemporanea, in attesa di un approfondimento che non ci sarà.

In estrema sintesi, questa è l’analisi della filosofa catalana: la nostra condizione contemporanea muove tra l’esaurimento del post-modernismo, il declino della globalizzazione e l’inizio di un mondo “postumo”, nel quale un eterno presente da “fine della storia” si tramuta in un tempo senza futuro; ad acuire tale crisi, l’emergere di nuove tecnologie che favorendo il sovraccarico cognitivo impediscono il formarsi di una coscienza critica nel soggetto, la cui stupidità si acuisce in maniera inversamente proporzionale a quella delle “macchine intelligenti”.

Tale condizione si riflette anche in campo politico, laddove a una “cristianità bianca e occidentale [che] si ripiega sui propri valori”, si contrappone positivamente (per l’Autrice) il modello del volontario delle organizzazioni non governative, la  cui missione di “salvare vite” è sacra, anche qualora tali vite “non abbiamo altro orizzonte di senso se non quello di affermare se stesse”. Certo, tale proposta può avere dei limiti nella sua natura emergenziale, ma alla Garcés piace e quindi siamo contenti per lei.

Per finire, la soluzione invocata dalla filosofa -da quel che ci è parso di capire- sarebbe una “alleanza dei saperi” in grado di rilanciare un nuovo tipo di umanesimo più critico e riflessivo, e non quello “classico” che invece, come è noto, rappresenta in realtà

“un imperialismo eurocentrico e patriarcale, [che] si basa sull’idea che ha di se stesso l’essere umano di sesso maschile, bianco, borghese ed europeo, e che si impone come egemonica su qualunque altra concezione di ciò che è umano, dentro e fuori l’Europa” (p. 71).

Insomma, anche se alla professora non piace l’umanesimo dei dead white men (come li definisce lei stessa prendendo a prestito una pungente espressione da women’s studies), comunque non può fare a meno di rivendicare un “fondo comune dell’esperienza umana”, magari più basato sulla “condivisione di emozioni” e avente un “ruolo ricettivo e di ascolto”, qualsiasi cosa significhi.

Perciò, umanesimo (o “illuminismo”) o no? La domanda non è ingenua perché tocca il nervo scoperto di mezzo secolo di egemonia progressista: da una parte la volontà di farsi paladini e difensori della cultura, dall’altra la necessità di distruggere questa stessa cultura in quanto “imperialista”, “eurocentrica”, “patriarcale”, “borghese”, “capitalista” eccetera (i peccati variano a seconda delle epoche). A un certo punto la Garcés sembra presentire l’esistenza del problema, evidenziando la contraddizione tra il disincanto nei confronti dell’illuminismo e l’invocazione perpetua di maggiore “cultura” o “educazione” per le masse. Una delle tante intuizioni non sviluppate di cui si discuteva più sopra.

Della proposta, in conclusione, non resta quasi nulla, se non un generico appello al “sapere” che in ambito profano si traduce probabilmente in una maggiore richiesta di finanziamenti alla “cultura”. Niente di male, per carità, però anche il “parlar chiaro” dovrebbe rientrare tra le prerogative di queste nuove illuministe radicali.

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