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Il Partito Radicale di Massa

L’espressione partito radicale di massa, coniata dal filosofo Augusto Del Noce per descrivere la convergenza tra comunisti e cattolici “secolarizzati” in una formazione politica di stampo “azionista” (cioè in grado di imporre a una comunità i desiderata di una élite), ha conosciuto negli ultimi tempi un’inaspettata fortuna per una lunghissima catena di fraintendimenti che cercheremo di “spiegare” (in tutti i sensi) anche nello spazio limitato di un blog.

Riconosciamo al sociologo Luca Ricolfi il merito di aver lanciato nella stampa mainstream la formula appiccandola, senza alcun riguardo verso la political correctness, direttamente al Partito Democratico. Segnaliamo di seguito solo un paio di esempi tra i tanti:

«Quello di partito radicale di massa è un concetto che descrive a pennello l’evoluzione del comunismo dal Pci al Pd renziano. […] Il Pd è diventato una sorta di macchina per proclamare diritti, e anche un rifugio identitario per i ceti alti e medi, bisognosi di impegno per espiare la colpa di non essere poveri. Una mutazione che l’alleanza con la Bonino ha reso evidente, per non dire plateale. Ma a questo tipo di evoluzione (o involuzione?) ha contribuito anche una certa dose di stupidità autolesionista, una quasi inspiegabile incapacità di capire il punto di vista della gente comune: come si può pensare, nell’Italia di oggi, di attirare consensi con l’antifascismo e lo ius soli?»
(intervista a “La Verità”, 11 marzo 2018)

«[…] Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.
La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa, così Emma Bonino (con o senza Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa. Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa.
Se pensate ai temi su cui, specie nella scorsa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità troviamo i temi di un partito radicale di massa assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali.
Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche mezzo pieno.
Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.
Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi di massa), paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovviamente un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.»
(Da partito popolare a partito radicale, Il Messaggero, 26 giugno 2018)

Ora, anche se non dubito che Luca Ricolfi abbia letto più volte i libri di Del Noce, ho il sospetto che il concetto di “partito radicale di massa” gli sia arrivato tramite il contributo di Marcello Veneziani, il quale nel suo volume Imperdonabili (2017) ha per l’appunto dedicato un capitolo al filosofo: temo, di conseguenza, che la mediazione di un opinionista “schierato” gli abbia fatto credere che l’autore de Il suicidio della rivoluzione avesse come bersaglio polemico più Pannella che Gramsci, portandolo infine a pensare che l’aggettivo di Del Noce abbia un’accezione politica e non filosofica (o meta-politica, se volete).

Può sembrare un cavillo, ma alla fine si capirà perché è importante fare chiarezza, soprattutto alla luce del fatto che la formula, proprio grazie al “fraintendimento” di Ricolfi, è finita addirittura sulla prima pagina del “Corriere della Sera” per intercessione di Claudio Magris («[…] la sinistra e il Pd, non più comunisti o socialisti ma partito radicale di massa […]», Per cosa scendere in piazza?, 4 giugno 2018), il quale a sua volta l’ha passata nientedimeno che a… Stefano Fassina!

Vediamo dunque di approfondire la questione: il Partito Radicale di Massa (che indichiamo con le maiuscole solo per enfasi) a cui fa riferimento il filosofo non è una versione massificata del Partito Radicale di Pannella, ma -come accennavamo all’inizio- una alleanza trasversale tra cattolici e comunisti entrambi rimasti senza “fede” a causa di due eventi che col senno di poi detengono una qualche “somiglianza di famiglia”: il Concilio Vaticano II e il XX Congresso del PCUS. Che poi questa convergenza abbia assunto una “forma” vicina a un partito storicamente esistente è possibile, anche se in tal caso Del Noce avrebbe comunque fatto riferimento a tutti gli eredi diretti del Partito d’Azione, e non solo a una delle sue falangi.

Il “radicalismo” delnocianamente inteso comprende pertanto tutta una serie di esperienze a dir poco composite, dal liberalismo al marxismo, dal modernismo alla secolarizzazione, dall’illuminismo al consumismo, dallo scientismo al razionalismo. Certo, in un’ottica puramente evenemenziale la “trovata” di Ricolfi è da considerare tutt’altro che intellettualmente scorretta; tuttavia essa rischia in ultima analisi di “mutilare” il pensiero di Del Noce, persino qualora la paternità dell’espressione gli venisse sottratta in base al contesto in cui viene utilizzata (in effetti Ricolfi non cita mai il suo nome, spesso chiamando in causa il solo Veneziani).

Per far capire ciò che intendo, mi rifaccio a un’altra delle riduzioni “a destra” operate sul Del Noce (oltre a quella appena affrontata, “da Pannella ai piddini”), rappresentata dalla concezione del post-modernismo come “continuazione del marxismo con altri mezzi”, che in questi anni sta riscuotendo peraltro grande successo nell’ambito del conservatorismo anglosassone (chi vuole approfondire può rifarsi a questa confutazione del “postulato” marxismo = post-modernismo, seppur estremamente polemica, verso un “bravo ragazzo” come Jordan Peterson):

Ovviamente in tal caso non esiste alcuna paternità, nemmeno indiretta, del pensatore italiano: eppure non possiamo non notare come una parte della cultura cattolica abbia sviluppato una visione simile, facendo sempre e comunque riferimento a Del Noce. Per certi versi, è come se tale idea fosse stata “nell’aria” e non necessitasse altro che essere adottata da qualche corrente di pensiero: a ben vedere però sembra che il vestito sia stato cucito troppo in fretta addosso al filosofo, forse anche per la legittima urgenza di trovare qualche arma di difesa contro quei comunisti che dopo il 1989 si sono rifatti una verginità nel baccanale dei diritti civili, dell’ecologismo, della gender politics, del libertinismo e del liberalismo all’americana.

Del Noce in realtà non ha mai parlato del post-modernismo come evoluzione del marxismo (perlomeno non in questi termini): al contrario, specialmente nei momenti più infuocati della sua polemica anti-borghese, è parso avvicinarsi alle suggestioni “negativistiche” della Scuola di Francoforte (si apprezzi il paradosso). Cosicché persino il totalitarismo della dissoluzione, altra formula di grandissimo successo nella destra cattolica, a quanto pare avrebbe molto più a che fare con Horkheimer e Adorno che non con De Maistre (il quale comunque fu anti-illuminista perché anti-totalitario, dunque inaspettatamente più vicino ai post-moderni di ieri che non ai tradizionalisti di oggi).

Dopo l’interminabile ma necessaria parentesi (si capirà subito il perché), veniamo infine al punto: l’obiettivo di Del Noce fu quello di dimostrare che la società opulenta, guidata politicamente da un comunismo “aziendale” (sic) e moralmente dai valori della borghesia illuminata (oltre che essere filosoficamente stabilizzata da un naturalismo reso completo dalla tecnica), ha un carattere intrinsecamente totalitario, in quanto realizzazione definitiva del “dominio puro e totale”. In ciò, la risposta “liberale” che egli andava sviluppando aveva ben poco in comune col liberalismo classico che a destra si contrappone al progressista (ormai in fase terminale). Soprattutto riguardo al tema dell’opulenza, collegato chiaramente con quello dello sviluppo tecnico-scientifico, la sua posizione in parte risultava già inconciliabile con quelle delle destre coeve.

Non credo, in conclusione, che da una prospettiva puramente delnociana il Partito Democratico meriti davvero l’etichetta di “Partito Radicale di Massa” (né del resto alcun altro partito della sinistra odierna), proprio per il motivo, all’apparenza insignificante, che qualsiasi nozione di progresso è scomparsa dal suo programma (non a caso ancora gli anglosassoni ora parlano di regressive left). Quel mondo che ci avevano apparecchiato decenni fa, su modelli orwelliani o huxleyani, conteneva in sé implicitamente una promessa di felicità, di appagamento, di sviluppo: pensiamo banalmente a come venivano propagandati non solo l’aborto e il divorzio, ma anche il terzomondismo e il multiculturalismo. Il controllo demografico, dicevano, ci avrebbe dato maggior benessere, l’incontro con altre culture ci avrebbe reso più ricchi (prima dal punto di vista materiale che morale) e alla liberazione dei costumi sarebbe naturalmente seguito un aumento della produzione e dei consumi, nonché un’ulteriore condivisione di opulenza.

Quella è la parola chiave, perché col senno di poi è come se il famigerato radicalismo di massa avesse invertito il rapporto dialettico tra pars destruens e pars contruens: il miraggio di una società aperta, tollerante, perfettamente funzionale e rivolta all’esclusiva ricerca del piacere, nel giro di una generazione si è trasformato in un girone infernale di recessione, dogmatismo e pauperismo. Tutte le conquiste sociali, politiche ed economiche degli “anni formidabili” si sono trasformati in riti espiatori di innumerevoli peccati originali: il divorzio diventò quindi la giusta punizione per il patriarcato, l’aborto un sacrificio necessario per rimediare ai mali compiuti dal maschio bianco etero, la società multietnica il prezzo da pagare per il colonialismo eccetera eccetera.

In cauda venenum, dobbiamo essere estremamente lucidi anche su questo’ultimo punto: se la massa ora rigetta il radicalismo non è per qualche profondo risveglio etico o spirituale, ma perché la promessa di “sazietà” (seppur “disperata”) non è stata mantenuta. È vero quindi che stiamo assistendo a un suicidio della rivoluzione, ma non precisamente nei termini stabiliti da Del Noce: in tal senso la questione irrisolta è se possa esistere un “radicalismo di massa” dai tratti controrivoluzionari, o se tale caratteristica salvaguardi naturaliter da qualsiasi forma di immanentismo. Questo però è proprio un altro discorso.

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