Il pianto greco (“La lingua geniale” di A. Marcolongo)

Uno degli aspetti più piacevoli del ricevere un libro in regalo è che non si deve spendere un centesimo per imbattersi in concetti che, quando non errati, si rivelano superflui: questa è una delle poche cose positive che posso affermare riguardo al pamphlet di Andrea Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco (Laterza, 2016), facendo finta tuttavia che il tempo sprecato a leggerlo non sia interamente a mio carico.

Ammetto in verità che la “confezione” avrebbe potuto ingannare anche uno come me, sempre alla ricerca di qualche testo che affronti il greco antico come una lingua umana e non aliena. Se mi fossi preso la briga di googlare il nome dell’autrice (Andrea è donna), probabilmente avrei evitato di acquistarlo (o avrei suggerito ad altri di non farlo), dopo aver scoperto non solo che questa Marcolongo è stata una ghost writer (in italiano “insegnante di sostegno”) dell’attuale Premier, ma che per giunta ha smesso di farlo per motivi di ordine economico (in effetti è imbarazzante vendere l’anima senza farsi pagare). Pare addirittura che sia stata proprio lei a suggerire a Renzi l’espressione “ucceacci del mauagurio” (la scrivo come l’ho sentita pronunciare), con il quale il fenomeno che abbiamo al governo ce li frantuma da due anni.

Per rincarare la dose, leggo nel risvolto di copertina che Andrea «nella sua vita ha viaggiato e ha vissuto in dieci città diverse, tra cui Parigi, Dakar, Sarajevo e ora Livorno»: sarei tentato di aggiungere un commento romanesco a tale illuminante dettaglio biografico, ma preferisco come sempre reagire da signore (e sti cazzi).

Allora, cos’è che non va del libro? In primo luogo, l’intento dell’autrice non è né pedagogico né divulgativo, ma tristemente moralistico. E la morale a cui si rifà è questa: chi ha fatto il classico vive, ragiona e digerisce meglio di tutti gli altri. Infatti, «li riconosci spesso quelli che hanno frequentato il liceo classico (non solo dagli occhiali che quasi sempre portano). Li riconosci dal modo di parlare e di scrivere: segno concreto che il greco è entrato dentro di loro, nel modo di vedere e di esprimere il mondo in italiano, e mai più ne è uscito. Oltre alla ricchezza del vocabolario […] e ad una certa propensione all’ipotassi […]» (pp. 119-120). Eccetera eccetera… non voglio star qui a ricopiare tre pagine di chiacchiere sulla superiorità non solo ontologica ma anche retorica di chi ha studiato il greco a scuola, da parte di una persona che usa espressioni tipiche del politichese come “al netto di” e riempie la sua prosa di due punti consecutivi e di lineette – ma ’sti benedetti incisi vanno chiusi, mica semo l’americani –.

Lasciamo pure da parte certe considerazioni infantili sui miserabili che hanno fatto lo scientifico, i quali secondo l’autrice «sentir[anno] sempre la mancanza di qualcosa» (p. 147). Il problema di tale impostazione “ginnasio-centrica” è che finisce per intaccare la qualità generale del testo: il moralismo infatti si estende alla linguistica, portando l’autrice a considerare peccaminoso il cosiddetto “principio di economia”, una delle modalità con cui opera qualsiasi sistema linguistico, la quale non corrisponde affatto a una “banalizzazione” e né è imputabile del fatto che «nel giro di dieci anni perderemo l’uso della parola e ci esprimeremo solo per emoticon» (p. 64).

Come dunque recensire un testo del genere, senza provare la sensazione di sparare sulla Croce Rossa? Non si riesce neppure a comprendere a quale pubblico vorrebbe rivolgersi la Marcolongo.

Evidentemente non a quelli che non hanno fatto il classico, perché loro non possono capire (ma Renzi che l’ha fatto, ha mai capito alcunché nella sua vita? Chiedetelo direttamente ad Andrea, visto che gli scriveva i discorsi…).

Agli studenti del classico nemmeno, perché il volume assomiglia a un’interminabile introduzione a una grammatica che non esiste: gli esempi sono frusti e arcinoti, non c’è uno straccio di consiglio su come studiare meglio e gli approfondimenti sul duale o l’ottativo manderebbero in confusione persino il buon Omero da sveglio.

D’altronde il testo vorrebbe essere solamente un “invito allo studio” e nient’altro: ma se l’unico luogo in cui si può studiare il greco antico è –secondo l’autrice stessa– il liceo classico, che senso avrebbe invitare gli studenti ad attendere un compito al quale sono obbligati? Non mi pare servano motivazioni aggiuntive a quelle già fornite dai professori (“Se tu non studi, io ti boccio”).

Alla fine sembra che il target si riduca a quello degli ex-studenti del classico che si sentono in colpa per non aver studiato abbastanza, ma che vogliono almeno provare l’orgoglio dell’io c’era.

Magrissima consolazione, anche perché sono proprio tali atteggiamenti che offrono il destro ai “grecofobi”, quelli che puntualmente coordinano l’assalto del liceo classico brandendo un iPad in una mano e un’agenda della Coca-Cola nell’altra.

Posso anch’io riconoscere un’eccezionalità linguistica (e culturale) al greco, soprattutto in riferimento alla nostra civiltà, ma al contempo non posso fare a meno di notare che la ricerca spasmodica di argomenti esterni alla materia ne mina paradossalmente l’autorità.

Il blog “GrecoLatinoVivo”, per esempio, ha dimostrato l’infondatezza dell’idea che si debba studiare il greco perché “è difficile” e quindi “forma il carattere” (Contro la scuola impossibile, 29 maggio 2016); si tratta di una favola consolatoria che si raccontano quelli che, avendo dimenticato tutto già un istante dopo la seconda prova, vogliono comunque considerarsi più intelligenti e “temprati” (tanto varrebbe insegnar loro pugilato o, per restare in tema, lotta greco-romana).

Nonostante la Marcolongo non disdegni di magnificare la sua persona ogni volta che gliene si presenti l’opportunità, e di conseguenza la tentazione di scadere nel personale è forte, cercherò ora di formulare critiche più obiettive, in realtà limitandomi solo a qualche osservazione per non farla troppo lunga (tralasciando ciò che scrive sul greco antico, ché sono informazioni reperibili nelle note a margine di una grammatica qualsiasi e sulla cui correttezza è superfluo discutere).

A pagina 12 l’autrice sostiene che l’hawaiano è «una delle poche lingue al mondo dove il valore aspettuale sopravvive». Questo io non creto. Tanto che persino un miserabile qualsiasi di quelli che non hanno fatto il classico può aver scoperto e compreso l’aspetto verbale studiando le lingue slave. In ogni caso, per ulteriori informazioni rimando a Wikipedia (non era difficile).

A p. 77, parlando di tabù linguistici, Marcolongo sostiene che «nelle lingue slave, come in russo, “orso” si dice medved che letteralmente significa “mangiatore di mele”; nella speranza che sia vegano e non azzanni esseri umani».

In realtà медведь in russo significa “mangiatore di miele” e non di mele. Può essere un refuso (anche se è noto che i vegani escludono categoricamente il miele dalle loro diete), ma dato che scrittori e saggisti passano il tempo a rimpallarsi bufale e strafalcioni, non vorrei ritrovarmi per ogni dove la storia dell’orso russo “ghiotto di mele”.

A p. 88 si afferma che l’unica lingua di derivazione indoeuropea ad aver conservato l’ottativo è il greco «insieme alle lingue indiane e persiane». Anche in tal caso, non creto, e rimando ancora a Wikipedia.

Quest’altro appunto potrebbe sembrare pretestuoso, ma tant’è: a p. 132 la Marcolongo, discutendo dell’espressione θάλαττα (“mare”), scrive che «è di origine oscura, forse proveniente da qualche popolo sconosciuto già presente nel Mediterraneo. Un termine senza precursori né successori in alcun’altra lingua il mondo eccetto il greco».

Ora, considerando che l’autrice è una grecista e che nel libro sono stati portati esempi di ogni tipo (persino da una fantomatica “lingua eschimese”), a mio parere sarebbe stato opportuno inserire in nota almeno qualche ipotesi sull’origine del lemma, per esempio citando la suggestiva tehom>tâmtu >thalatth (vedi… Wikipedia).

[Per quanto riguarda i “successori” – ma questa è già fantalinguistica –, se θάλαττα rimanda a tehom inteso come “abisso primordiale”, allora esiste un altro termine che segue la stessa evoluzione, ed è il proto-turco *teŋri/*taŋrɨ, inizialmente riferito a Dio, al cielo e al paradiso, il quale ha dato origine ai termini correntemente in uso per indicare il mare nel turco moderno, deniz, e nel magiaro, tenger].

Concludiamo con una nota “politica”.

A pag. 125 la grecista afferma che la lingua è «l’espressione di una coscienza unitaria di popolo. Non di nazione: quella viene poi, con i confini verticali o sghembi tracciati da chissà chi e chissà perché sul mappamondo (o forse proprio a questo servono le guerre e le religioni)».

Beata ingenuità… ci sono migliaia di esempi che dimostrano esattamente il contrario, ma accettiamo pure che sia così. Questo pensierino diventa tuttavia sospetto qualche pagina più avanti, quando a mo’ di conclusione la Marcolongo esprime alcuni giudizi enigmatici sulla lingua e sulla nazione greca:

«In questi anni la Grecia ha affrontato, in nome della sua identità e della sua dignità sociale, sfide economiche e politiche uniche in Europa utilizzando, di fatto, una lingua unica e straordinaria, ma vecchia di secoli, anzi, di millenni. Ma oggi la vera sfida, non solo linguisticamente parlando, sta tutta nella volontà di ricostruire una lingua finalmente moderna che serva a tutti i greci per capire e farsi capire nel 2016, nei propri confini e soprattutto fuori dalla Grecia.

[…] Di fatto, la Grecia parla oggi un greco moderno che prende in prestito gran parte dei suoi elementi dal greco antico per ribadire al mondo l’identità di un popolo che ha il passato culturale più imponente del mondo occidentale. Un popolo che, da quel passato, sembra però non riuscire a liberarsi più, in una costante lotta per un presente che non arriva mai […]» (p. 151)

Scusi, può ripetere? Dopo aver impiegato centocinquanta pagine a esaltare il greco, ora l’autrice se ne esce con la storia che i greci dovrebbero rinunciare alla loro eredità linguistica (del resto già hanno rinunciato a tutto!) per… farsi capire? Viene il sospetto che, per sdebitarsi, Renzi si sia messo a fare il ghost-writer della Marcolongo.

Insomma, siamo seri: che senso ha collegare la situazione odierna della nazione greca col greco antico che si studia sui banchi di scuola? Non avendo fatto il classico, forse non sono in grado di ravvisare il nesso; però noto chiaramente che, con amici simili, il greco (antico e moderno) non ha bisogno di nemici.

*

Il piagnisteo greco
(note a margine di una recensione)

Dal momento che la maggior parte dei visitatori giunge da questi parti a causa della mia recensione di cui sopra, preferirei “dirottare” gli interessati verso un’analisi più approfondita, Greco, ragione e sentimento (“Macaronea”, 26 gennaio 2017), che demolisce il volume limitandosi al tema di cui in effetti tratta (il greco antico, appunto).

Non che non c’avessi pensato, ma non volevo fare la solita figura da ultracrepidario, perciò mi sono limitato ad analizzare il libro dalla sola prospettiva che mi compete, quella della tuttologia.

In ogni caso, se La lingua geniale mi ha fatto passare non solo la voglia di vivere, ma anche quella di avvicinarmi al greco antico, la recensione di Macaronea invece ha rinnovato la mia curiosità nei confronti della materia (in particolare per la diatesi media e le desinenze attive dell’aoristo passivo). Prima o poi dovrò mettermi a studiarla seriamente, anche perché la pronuncia itacistica (ché io conosco solo il greco moderno) fa davvero ridere i polli, nonostante sia attualmente l’unica che il mio orecchio pare gradire (mentre trovo cacofonica e ridondante l’erasmiana/etacistica, ma ovviamente si tratta di un problema soltanto mio – non cominciamo coi “marcolonghismi”!)

Se quindi siete studenti e avete qualche dubbio, per favore evitate di chiedere a me che non so niente dalla nascita (il mio unico titolo di studio è il battesimo), ma rivolgetevi direttamente a Macaronea, che essendo un insegnate sarà sicuramente esperta nell’arte di sfanculare un educando con eleganza e senza farglielo capire.

Ciò che invece posso offrirvi è solo una spiegazione ipotetica del perché il libro abbia così grande successo e venga “pompato” (absit iniuria verbis) ad arte.

Esistono a mio parere due ordini di motivazioni, uno culturale e uno politico.

Quello culturale è strettamente collegato al dibattito sull’insegnamento del greco nei licei italiani, al quale la Marcolongo contribuisce fornendo paradossalmente più pretesti ai sostenitori dell’abolizione che non a quelli della conservazione. Infatti, l’esaltazione della “genialità” del greco, che non è dimostrata ma solo presupposta, implica come conseguenza l’inutilità di insegnarlo nelle aule scolastiche, poiché proprio attraverso le sue qualità intrinseche esso riuscirebbe a imporsi come materia di studio (non sappiamo se come svago pomeridiano o in altre forme).

Francamente non sarei così fiducioso: tale argomento venne utilizzato anche nei confronti dell’insegnamento obbligatorio del latino, ma col senno di poi possiamo accorgerci di tutta la sua aleatorietà.

In ogni caso, non è proibito credere che il greco abbia un “qualcosa in più” rispetto a qualsiasi altra lingua: anch’io, in maniera altrettanto velleitaria, potrei riconoscergli una sorta di “icasticità naturale”, dovuta al fatto che la cultura ellenica è stata una delle prime a credere fino in fondo nel potere della parola. Tuttavia sono cose che tengo per me, o alle quali dedico il tempo che meritano, con la consapevolezza che la cultura alla quale appartengo influenza enormemente la mia percezione. Se proprio dobbiamo confessarcelo, il dialetto ionico-attico appare “geniale” solo a chi si considera culturalmente suo erede, così come i nazionalisti tamil e malgasci credono che il lemuriano e il proto-malaïque siano le lingue primordiali dell’umanità: la verità è che noi studiamo il greco antico non per una sua intrinseca “genialità”, ma quasi esclusivamente –sto per dire una parolaccia– per tradizione. Dobbiamo essere “laici” da questo punto di vista e non raccontarci storielle come quelle della Marcolongo, che per rafforzare le sue opinioni insinua che categorie come l’aspetto verbale o il modo ottativo siano presenti solo nell’idioma di Platone e Pericle.

Fatte circolare in queste modalità, certe tesi destano più di un sospetto. Non dubito della buona fede della Marcolongo, ma quando si dà un megafono a qualcuno per fargli dire, per esempio, che “il greco antico dovrebbe essere insegnato meglio (o in modo più appassionato)”, di solito non ci si aspetta come conseguenza l’assunzione di insegnanti più preparati o l’incremento delle ore dedicate alla materia: più verosimilmente, invece, ci si attende che il greco venga abolito e quelli che lo insegnano declassati o licenziati.

Faccio questo discorso soprattutto alla luce dell’altro ordine di motivazioni, quello politico. Ripeto ancora giusto per chiarezza: la pagina conclusiva de La lingua geniale, nella quale la Marcolongo auspica che i greci rinuncino alla loro eredità culturale per diventare “europei” (o “più europei”), inficia qualsiasi possibile contributo positivo del libro.

Tale controversia si inserisce poi in un secondo Kulturkampf, non più confinato nell’ambito italiano, ma esteso all’intera Unione: è una questione che si potrebbe affrontare da miriadi di prospettive, ma limitiamoci alla cronaca spicciola. Per giustificare la distruzione della Grecia, le agenzie culturali “europee” avanzano con sempre più insistenza l’idea che quel Paese brutto sporco e cattivo non abbia alcun legame con gli “ariani onorari” Omero, Platone e Pericle.

Il punto di non ritorno della polemica è stato segnato da un articolo apertamente razzista della “Welt” (giornale legato alla CDU di Angela Merkel), Griechenland zerstörte schon einmal Europas Ordnung, pubblicato l’11 giugno del 2015, durante l’ultimo scontro (prima della capitolazione) tra Atene e Bruxelles: in esso si sostiene che i greci di oggi sono soltanto un “incrocio tra slavi, bizantini e albanesi” (eine Mischung aus Slawen, Byzantinern und Albanern) e che dunque l’Europa a loro non deve proprio nulla (è una vecchia ossessione tedesca, l’idea che la Germania sia la vera erede dell’antica Grecia).

Come a segnale convenuto, anche in Italia cominciarono a risuonare certi discorsi imbarazzanti: il 13 luglio sul “Corriere” Umberto Curi sostenne con veemenza che è un “falso storico” definire la Grecia “culla della democrazia”, e una settimana dopo, sullo stesso giornale, Giuseppe Galasso ripeté la lezione tedesca: «La Grecia di oggi ha in comune con quella [di Pericle] solo la lingua e l’alfabeto. La Grecia di oggi è figlia, invece, di una diecina di secoli bizantini e di quattro o cinque secoli di regime turco-ottomano» (La Grecia mediterranea è più turca che classica, “Corriere”, 20 luglio 2015). Gustiamoci, en passant, il paradosso: Galasso sostiene che la Grecia di oggi con quella di Pericle ha in comune solo la lingua e l’alfabeto, quindi dovrebbe rinunciare alla propria eccezionalità culturale perché troppo leggera; la Marcolongo invece sostiene che la Grecia di oggi, avendo in comune con quella di Pericle la “lingua geniale” (a suo dire il non plus ultra della grecità), proprio per questo dovrebbe rinunciare alla propria eccezionalità culturale perché… troppo pesante!

Si tratta solo di un esempio della tendenza attuale. In ogni caso, a me sembra che alla fin fine i due ordini di motivazioni (culturale e politico) siano collegati. Può apparire come un discorso “complottista”, ma a mettere assieme i tasselli tout se tient: da una parte, si invoca una “sublimazione” dell’insegnamento del greco antico, suggerendo che una sua trasmigrazione dagli angusti banchi di scuola ai luminosi schermi di Rai Tre potrebbe finalmente “valorizzarlo” come merita; dall’altra, si afferma che i greci invece di gongolare per la loro “lingua unica e straordinaria” dovrebbero invece “liberarsi dal loro passato” (cito testualmente la Marcolongo). Come si conclude tutto ciò? Che il greco viene abolito pure in Grecia! È chiaro, no?

In cauda venenum, un suggerimento agli studenti costretti dai propri insegnanti a comprare il libro: dopo aver fatto finta di leggerlo, mettetelo da parte e procuratevi un bel Bignami (per fortuna li stampano ancora), oppure l’appassionante corso della Assimil (dal prezzo monstre, ma indispensabile per chi non sa proprio da dove partire).

Il dovere di studiare il greco infatti non esclude il diritto di odiarlo con tutto il cuore, almeno fino a quando non passerà la tesi pseudo-russoviana che «per insegnare il latino a Giovannino non bisogna conoscere il latino ma Giovannino» (dove Giovannino verrà però sostituito da Meteco, non solo per licenza poetica).

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