Il PKK nel cestino della storia

In Italia è calato un singolare “silenzio stampa” sulla decisione dei vertici stessi del PKK di sciogliere l’organizzazione e provare ad abbandonare decenni di militanza insensata, delirante e anacronistica. Mi stupisce, per esempio, che mio caro amico, giornalista ormai da trent’anni, non ne avesse ancora sentito parlare: va bene che è successo -letteralmente- ieri (12 maggio 2025), ma questo è sintomo che la notizia è stata occultata persino ai famigerati “professionisti dell’informazione”.

Il motivo principale, a mio parere, è che in Occidente i “curdi”, cioè una specifica parte della vastissima compagine che va a formare il “popolo curdo”, sono tenuti su un piedistallo dalle élite post-sessantottine, che ancora detengono il monopolio mediatico. I motivi sono numerosi, ma mi pare che un altro amico, Progetto Razzia, sia riuscito indirettamente a sintetizzarli:

«Sulla storia di questa organizzazione terroristica bisognerebbe parlare per giorni: dai sospetti legami con Israele, alla curiosa buona stampa goduta in Europa, al trasformismo di Öcalan passato dallo stalinismo più severo ad un municipalismo anarcoide che nessuno mi toglierà mai dalla testa gli è stato suggerito da qualcuno dal Dipartimento di Stato USA».

Partiamo dai legami con Israele: essi non sono affatto “sospetti”, ma oltre a essere attestati storicamente sin dai primi decenni del Dopoguerra, sono proseguiti non soltanto in parallelo con gli Stati Uniti, ma a volte addirittura come progetto a sé stante di Tel Aviv per far sorgere un secondo Israele in Medio Oriente e poter distogliere l’attenzione internazionale dallo Stato ebraico.

Kurdistan: un secondo Israele in Medio Oriente?

Riguardo invece alla “buona stampa” goduta in Europa, tutti noi sfortunatamente ricordiamo l’incredibile rottura de cojoni di Zerocalcare, ma in verità la moda della biblia pauperum (s’intende “poveri” d’intelletto) dei “fumetti impegnati” dedicati ai curdi è dilagata in tutta l’Europa: per esempio, un disegnatore spagnolo (tale Keko) ha pubblicato un libretto di disegnini (in inglese) su impulso di uno studioso tedesco, Reimar Haider.

E con il buon Haider (s’intende sempre Reimar) veniamo al terzo punto, cioè al passaggio di Öcalan “dallo stalinismo più severo ad un municipalismo anarcoide”. La leggenda vuole che il fondatore del PKK, dopo esser stato confinato nelle carceri turche anche grazie all’indispensabile intervento del governo italiano (ci torneremo), si sia imbattuto negli scritti di tale Murray Bookchin, un anarchico newyorchese (ovviamente di origine ebraica) che avrebbe elaborato delle bellissime etichette (tipo “confederalismo democratico”) per indicare un’idea politica piuttosto vaga e nebulosa.

Infatti nessuno ci ha capito niente, e i curdi hanno continuato a fare quello che hanno sempre fatto nelle rispettive nazioni: in Turchia a cercare di integrarsi in ogni modo (a parte gli scalmanati reclutati proprio dal PKK), in Siria a essere utilizzati come carne da cannone nel momento in cui Damasco entrava in attrito con Ankara, in Iraq a fare da monatti per gli americani ed accaparrarsi le aree più ricche di petrolio.

Ciò che bisognerebbe comprendere, per seguire la “traccia” di Progetto Razzia, è se esiste effettivamente qualcuno che abbia attivamente “imboccato” Öcalan con gli scritti di Bookchin, il quale come autore non è mai stato praticamente tradotto prima del 2015 (anche in italiano scarseggiano le sue opere), ma per qualche miracolo è giunto al leader curdo nelle blindatissime prigioni ottomane

Questo Reimar Haider, come si diceva, è un tizio tedesco di professione non si sa bene cosa, che però in qualche modo si è appassionato alla causa curda e ha deciso di imparare niente di meno che il… turco (perché Öcalan parla solo turco), per discutere con il Santo Patrono del Kurdistan.

Lo stesso Haider, nel 2004, ha scritto a Bookchin per informarlo che Öcalan stava elaborando una nuova dottrina dai suoi scritti, e l’anarchico giudeo-americano, ormai vecchio e malato, avrebbe risposto con uno “sticazzi” liricizzato (così almeno riporta la figlia Debbie sulla “New York Review of Books”, in un articolo nel quale tra le altre cose emerge che il filosofo ribelle si ispirava a George Smiley, l’ambigua spia dei romanzi di Le Carré…)

Del resto, chi rovista nella storia del PKK rischia di imbattersi in un “servizio” dopo l’altro: sicuramente gli israeliani (e quando Öcalan venne arrestato nel 1999 i curdi assaltarono le sedi diplomatiche dello Stato ebraico in vari Paesi, forse una manifestazione indiretta di rabbia per qualche “promessa non mantenuta”), poi i siriani (che hanno fomentato il loro separatismo per mera Realpolitik, considerando che nell’era Assad i curdi, a differenza che in Turchia, sono stati trattati veramente come “cittadini di Serie B”), poi ancora i russi (che non avevano grande interesse a intestarsi un’altra minoranza in Medio Oriente), e per proseguire i greci (che decisero cristianamente di non scherzare col fuoco nell’utilizzare i curdi contro Ankara) e infine gli italiani.

Ecco, spendiamo due parole sul Bel Paese: Öcalan giunse a Roma nel novembre 1998, come una meteora intenzionata, dalla prospettiva nazionale, a mettere in difficoltà il governo Baffetto, che si era appena formato proprio per contenere le varie scissioni post-89 del PCI che avevano fatto crollare il Prodi I. L’Italia, per evitare l’estradizione (obbligata), avanzò il cavillo della pena di morte, obiezione che portò poco dopo la Turchia ad abolire l’istituto e, indirettamente, a risparmiare l’esecuzione l leader curdo.

Per certi versi, Roma ha effettivamente ha salvato la vita a Öcalan , ma siccome c’era di mezzo la minaccia di una crisi di governo, il successo non poté essere vantato in alcun modo e anche col senno di poi a nessuno nutre la benché minima idea di ricordare che il sistema penale turco fu riformato grazie alle diatribe fra l’Innominabile e Oliviero Diliberto.

Forse sarebbe il caso di chiuderla qui (tralasciando dunque l’immenso capitolo dei rapporti tra CIA e curdi), e seppellirle il PKK per sempre. Inutile maramaldeggiare, l’importante è che non si debba più discutere dell’ennesima follia sinistroide oltre il limite di scadenza ideologica.

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