Il primo (e ultimo) romanzo europeo

Una domanda che non andrebbe mai posta a un intellettuale che si crede “europeo” è a che cosa corrisponda per lui l’espressione “letteratura europea”: la discussione che ne scaturirebbe potrebbe portare a una strage di neuroni e a un abbassamento del quoziente intellettivo medio della popolazione. D’altro canto, la conclusione a cui il dibattito giungerebbe è piuttosto scontata: tra quelli che propongono solo francesi (Balzac, Hugo, Proust) o qualche mattone polacco minimalista (cit.), avrebbero naturalmente la meglio i fanatici nostalgici della Duplice Monarchia Imperiale e Regia, in grado di annientare gli avversari nel giro di tre pagine del catalogo Adelphi.

A fronte delle infinite fioriture nazionali e anche regionali, bisogna effettivamente riconoscere, battute a parte, che l’unica letteratura che potrebbe fregiarsi della qualità di “europea” è quella austro-ungarica: non è un caso che La capitale di Robert Menasse (Die Hauptstadt, Suhrkamp 2017; tr. it Sellerio, 2018) si rifaccia a volte in maniera sfacciata a tale tradizione, giungendo quasi a mettere insieme un bignami de L’uomo senza qualità il cui minimalismo (non polacco) è dovuto più allo spirito dei tempi che alla capacità dello scrittore.

Il romanzo è ambientato a Bruxelles, tra una ridda di eurocrati medio-progressisti, commercianti di maiali (e maiali veri, non in senso metaforico), inservienti ucraini cooptati per ragioni geopolitiche, delegazioni di cinesi affamate di accordi commerciali, sopravvissuti dell’olocausto e attentatori islamici. Il clima è esattamente quello della fatidica “Azione Parallela”: alcuni “addetti alla cultura” vorrebbero far coincidere la celebrazione del cinquantennio della Commissione Europea con il ricordo di Auschwitz, in un surreale Jubilee Project alla quale dovrebbe essere invitati tutti i reduci ancora in vita del campo di concentramento (il cinismo dei calcoli sul numero degli ebrei scampati allo sterminio è un tocco di classe).

Ovviamente il progetto affonda in primis per questioni di buon gusto, anche se Menasse in alcuni punti tenta senza molta convinzione di mettere in scena il complotto dei “sovranisti” contro le anime belle eurocratiche (la cui unica colpa è l’idealismo): probabilmente una mossa per accattivarsi quei recensori crucchi, mangiarane e italioti desiderosi di collocare automaticamente l’opera sotto l’etichetta di “europeismo critico”. In realtà La capitale è forse la cosa più anti-europeista che il politicamente corretto consenta di pubblicare a un grande editore: per certi versi è una sorta di “libro bianco” di un progetto politico fallito che vuole a tutti i costi trasformare la farsa in tragedia.

Se accantoniamo l’insulsa trovata del “sicario polacco agli ordini del Vaticano” (o dovremmo ancora interpretarla come piaggeria verso i critici, per poter ridurre la veridicità del romanzo a gioco letterario?), i caratteri e le situazioni rappresentate da Menasse sono di un realismo imbarazzante, che a tratti si fa profetico nella misura in cui riesce a inquadrare la “banalità del banale” (sic) dell’Unione: per esempio, quando irrompe nella trama una sciacquetta che fa bloccare un aereo per impedire la deportazione di un immigrato ceceno in Russia. Beh, questa cosa è davvero successa, ma mesi dopo la pubblicazione del libro, quando una studentessa svedese nel luglio 2018 è stata protagonista di un simile “blitz”, impedendo, a sua insaputa (?)  l’espulsione di un afghano che ha massacrato di botte la moglie e i figli (a suo tempo ne parlammo qui).

Altra “profezia” notevole riguarda la querelle sui campi di concentramento “polacchi” che ha contraddistinto le cronache dell’anno scorso ma che già balugina tra le pagine de La capitale, fino a diventare una delle motivazioni del fallimento della Azione Parallela euro-olocaustica. Ancora più perturbante l’obiezione con cui i tedeschi, sempre secondo la fantasia dell’Autore, si oppongono al “Progetto Giublieo”: «[La Germania] ha messo in dubbio l’idea di Auschwitz come fondamento dell’Unione Europea, sottolineando che i musulmani presenti in Europa non vanno esclusi dall’opera di unificazione» (p. 399). No, non abbiamo ancora assistito al sorpasso del vittimismo filosemitico da parte di quello islamofilo, ma è praticamente scontato un esito del genere (e va dato atto a Menasse di esser forse l’unico intellettuale mainstream ad aver avuto il coraggio di dire l’indicibile).

In conclusione, La capitale è un capolavoro fin de siècle di un “secolo” che non c’è mai stato: più che il primo atto di una letteratura autenticamente europea (in tedesco!), è il sunto del meglio che la “scuola austriaca” (in senso letterario, ovviamente – ma ne esiste poi un altro?) ci ha lasciato. Dunque qualcosa resterà, di questa Unione Europea, nella misura in cui essa riuscirà a non lasciare nulla di se stessa.

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