sono assai deluso, ma resto milanista…
— Alessandro Dal Lago (@AlessandroDal13) July 20, 2012
Questo è il primo e ultimo tweet che il grande sociologo Alessandro Dal Lago ha voluto pubblicare sul noto social network: risale al 20 luglio 2012 e afferma laconicamente: “Sono assai deluso, ma resto milanista…” (nel caso sparisse dall’internet, l’ho archiviato qui). Un tifoso milanista in questi anni ha sicuramente avuto miriadi di occasioni per rimanere deluso (a livello calcistico del resto si parla di un’era geologica fa, anche se probabilmente lo studioso fa riferimento alla cessione simultanea di Ibrahimović e Thiago Silva), in ogni caso Dal Lago non ha fatto mai mistero della sua fede, anzi ha iniziato sin da subito a professarla, a partire da uno dei suoi studi più noti e avvincenti, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio (Il Mulino, 1990).
“Durante l’adolescenza… sono divenuto impercettibilmente milanista”: comincia così quel capolavoro di scorrettezza politica in forma di saggio che irrompeva a gamba tesa (no pun intended) in un panorama politico-culturale totalmente monopolizzato dalla “violenza degli ultras” e dall’esigenza di “leggi speciali”. Dal Lago irrideva al moralismo della stampa e alla manipolazione dell’opinione pubblica operata dalla stessa, interpretando il calcio come “fatto sociale totale”, le partite come “eventi drammatici” in senso costitutivo, le tribune come luoghi elettivi della “impunità rituale” nei quali vigeva la “voluttà di provocare ed essere provocati ritualmente”.
Il contesto in cui venne scritto e pubblicato era l’Italia di fine anni ’80 (per il Milan era l’epoca di Berlusconi in elicottero a San Siro con la Cavalcata delle Valchirie in sottofondo), Paese totalmente diverso e che eppure si nutriva in pratica delle stesse paranoie. Le pagine sul “razzismo degli stadi”, ad esempio, sembrano scritte oggi:
«I tifosi vivono l’uso di certi slogan, gesti o simboli politici, così come gli insulti rituali di tipo razzista o discriminatorio, al di fuori di ogni referente politico. O meglio, subordinano il referente politico a quello dominante nello stadio. Se ad esempio una tifoseria si confronta con una avversaria che è ritenuta tradizionalmente di “destra”, la saluterà col pugno chiuso (insulto diretto) oppure gridando “comunisti, siete comunisti” (insulto indiretto”, indipendentemente dall’appartenenza dei membri della prima tifoseria a qualche partito o movimento».
Il case study preferito dal sociologo è la storica Argentina-Camerun di Italia ’90, dove il pubblico “neutrale” del Meazza, dagli interisti ai milanisti, dai naziskin ai piccolo-borghesi, cominciò a scandire “Africa Africa” e a sostenere con tutto lo zelo possibile gli undici leoni di Yaoundé per avversione nei confronti del “napoletano” Maradona:
«Come sarebbe ingenuo attribuire questo entusiasmo a un’improvvisa simpatia per gli immigrati di colore, così sarebbe semplicistico vedere negli slogan “contro i meridionali” (che certamente poche domeniche prima qualche spettatore di Milano ora convertito all’Africa avrà gridato contro il Napoli) un razzismo diffuso».
Parole talmente sagge che sarebbe utile aggiornarle e riproporle nell’attuale frangente, che vede la questione del “razzismo negli stadi” ormai “internazionalizzata” e a sua volta ritualizzata in una liturgia di vittimismo e penitenze. Scriviamo queste parole nei giorni dell’isteria colletiva a seguito di Inghilterra-Bulgaria (6-0), sospesa due volte per il “razzismo” dei tifosi bulgari e diventata immediatamente un caso politico, che ha avuto finora come conseguenza le dimissioni del presidente della Federcalcio bulgara Borislav Mihaylov e quelle del commissario tecnico Krasimir Balăkov.
È inquietante che un luogo elettivo della “ritualità” contemporanea quale è lo stadio sia diventato “riserva di caccia” per le agenzie culturali che promuovono la political correctness, evidentemente interessate non tanto a far “trionfare la giustizia” a livello universale quanto promuovere nelle masse l’idea che la censura possa essere autorizzata a “fin di bene”. Sì, è un peccato che uno come Alessandro Del Lago non sia attivo su Twitter a commentare queste storie: di sicuro in 280 caratteri riuscirebbe a dire qualcosa di estremamente più interessante di tutte le stronzate che stiamo ritwittando (o come si scrive).