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Il primo terremoto dell’Italia irreligiosa

Se i terremoti servissero a misurare il sentimento religioso di un Paese, dovremmo riconoscere che quello che ha appena colpito il Centro Italia (con epicentro ad Accumoli) è il primo di un’epoca in cui qualsiasi risposta religiosa suscita indifferenza, se non avversione.

Colpa della popolazione, magari proprio di quella colpita dalla catastrofe? Direi decisamente di no, non solo per un senso di rispetto e compassione, ma anche perché questa è soprattutto una delle tante conseguenze della “crisi d’identità” che ha travolto la Chiesa e il cattolicesimo tutto. Del resto, come diceva Adriano VI, «i peccati del popolo hanno la loro origine nei peccati del clero».

Infatti non si comprende neppure quale dovrebbe essere la reazione adatta di un cattolico di fronte a un evento del genere: anche alla semplice preghiera è stato tolto qualsiasi senso.

Tutto ciò discende da un’impostazione teologica ben precisa che, se non incoraggiata direttamente dall’attuale pontificato, quantomeno è stata da esso favorita: parliamo, usando le parole del rabbino Riccardo Di Segni (uno dei pochi autorizzati a criticare Papa Francesco senza rischiare una lapidazione mediatica), dell’idea che «con l’arrivo di Gesù, il Dio dell’Antico Testamento è cambiato: prima era severo e vendicativo, poi è diventato il Dio dell’amore. Quindi, gli ebrei sono giustizialisti e i cristiani buoni e misericordiosi. È un’aberrazione teologica molto antica, che è rimasta una sorta di malattia infantile del cristianesimo» (cfr. l’intervista a “L’Espresso” del 16 ottobre 2015).

Su tale presupposto pseudo-gioachimita si basa l’incessante successione di “aggiornamenti” alla quale la Chiesa sottopone se stessa e i suoi fedeli. Si può quindi comprendere come un terremoto, nella cosiddetta “Età dello Spirito”, rappresenti un evento inaspettato, che non rientra nel great scheme of perfect happiness e che, dunque, fondamentalmente, non può accadere.

Alla luce di queste osservazioni dovremmo interpretare anche le parole del vescovo di Rieti, che durante le esequie solenni per le vittime ha affermato testualmente che a uccidere non è il terremoto, «ma le opere dell’uomo» (cfr. “Repubblica”, 30 agosto 2016).

Il significato di tale dichiarazione è piuttosto enigmatico: per certi versi colpevolizza involontariamente le vittime (un tempo gli stessi chierici dicevano che il terremoto era la giusta punizione per i peccati dell’uomo: anche se oggi i “peccati” sono altri, di tipo legislativo-burocratico, la sostanza del ragionamento pare la stessa); per altri invece ripropone il mantra populista del “dagli all’untore” (sul quale torneremo).

Tuttavia è lo stesso prelato a offrire la chiave di lettura, intimando: «Dio non sia capro espiatorio». Il male è quindi soltanto opera delle “cattive azioni” (sempre da un’ottica legislativo-burocratica) degli uomini: la teodicea, che nasce pur sempre da un’interrogazione (unde malum?), oggi non risponde più a nulla. Con questo “modello” infatti sarà possibile incolpare l’essere umano indefinitamente: pensiamo infatti se un Giobbe redivivo costruisse la sua casa rispettando fino all’ultimo cavillo di ogni regolamento antisismico, e questa casa crollasse a causa di una scossa più forte delle altre. In tal caso, cur malum? Ma ovviamente nell’opera dell’uomo che intralcia l’avvento della nuova era.

Non ha quindi torto il rabbino a parlare di “aberrazioni teologiche”: è inevitabile che le persone non cerchino più nessuna risposta nella fede. Del resto, anche accettando che la teologia si faccia ancella della perfettibilità terrena (promettendo che giorno riusciremo a prevedere i terremoti e a elaborare regolamenti antisismici infallibili), non si capisce perché l’uomo dovrebbe allora rivolgersi alla fede per trovare un senso: per questo basta appena un blando ottimismo.

Accantonata la fede, la domanda sul senso resta però ineludibile.
Solitamente la reazione indicata come la più “razionale” (secondo criteri stabiliti dagli stessi che la propongono) è quella di individuare un capro espiatorio, l’untorello che ha permesso al terremoto di causare così tanti danni. Un processo, anche il più assurdo, deve sempre esserci: così è appagata quella “società civile” che fa della deontologia un feticcio apotropaico.

Non che sia sbagliato accertare le responsabilità penali, o auspicare che  un rispetto rigoroso delle regole antisismiche impedisca a qualsiasi casa di crollare: tuttavia tale atteggiamento diventa intellettualmente scorretto quando si trasforma in un’espediente per mettersi il cuore in pace, o in un tentativo estremo di non cadere nel fatalismo.

Un’altra reazione considerata “razionale” è, a livello più alto, quella della cultura, cioè la stessa dai tempi del terremoto di Lisbona (1755), la prima catastrofe naturale alla quale gli intellettuali reagirono in quanto categoria.

Francesco Piccolo, per esempio, a differenza di quanto ha scritto sul “Corriere” qualche giorno fa (uno dei commenti più banali mai letti, il cui messaggio in sostanza è “la vita va avanti”: Noi che diventiamo altri di fronte alla tragedia, 28 agosto 2016), nel suo romanzo Il desiderio di essere come tutti (2013) commentò il terremoto dell’Irpinia con parole che difficilmente avrebbe potuto riciclare “a caldo”: «Per la prima volta, l’unica, eravamo tutti in strada. Tutti noi che abitavamo in città, eravamo in strada. La città era invasa da tutti i suoi abitanti […]. I giorni successivi al terremoto erano stati – li avrei ricordati per sempre come: i più belli della mia vita».

Lo scrittore probabilmente non si avvede nemmeno di aver chiamato in causa un topos della letteratura universale, quello della “festa crudele”. Come scriveva Furio Jesi nell’introduzione a un’antologia sul tema della festa (“Conoscibilità della festa”, 1977, ora ne Il tempo della festa, Nottetempo, Roma, 2013):

«L’unica “festa” sui generis che ci rimane accessibile è la “festa crudele”, […] un’esperienza collettiva di violenza e di dolore. […] “Feste crudeli” di questo genere, legate fra loro da questo denominatore comune […] sono il terremoto di Lisbona nell’evocazione di Voltaire, la peste di Milano (ma anche l’insurrezione della plebe milanese, in cui si ritrova Renzo) ne I promessi sposi. […] Festa crudele senza implicazione metafisiche, semplice esperienza umana collettiva di un’ora angosciosa e tuttavia “festa”: “festa” in negativo […] [che attrae] ogni esperienza che sia collettiva, dolorosa, e che in qualche misura corrisponda – appunto in negativo – alle caratteristiche della vera festa».

Da una risposta collettiva non si scampa, quindi: se non provvede la religione a offrirla (come uno degli etimi promette), allora interverrà altro, magari la letteratura come surrogato mitopoietico. Anche questo rientra nel gioco delle risposte “illuminate”; rimane però la flebile speranza che almeno la fede nell’uomo resista alla dissacrazione.

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