Site icon totalitarismo.blog

Il privilegio bianco di farsi sparare al petto da uno sbirro

Qualche parere sparso sull’assalto dei manifestanti pro-Trump al Campidoglio: in primo luogo, la responsabilità è tutta da attribuire al Presidente ormai uscente, che non ha avuto il coraggio di “andare fino in fondo”. È lui il primo ad aver fomentato i torbidi, continuando a incitare alla rivolta contro “l’elezione rubata”, anche nel video, pubblicato dopo che gente ricoperta da pelli di bisonte era entrata bellamente nei palazzi del potere, in cui invita i sostenitori a “tornare a casa”, pur affermando di comprendere la loro rabbia, “perché ci hanno rubato un’elezione”.

Sono stati questo tipo di interventi contraddittori ad aver offerto a Twitter l’alibi per censurare un Presidente americano in barba a qualsiasi “Primo Emendamento”. Il nucleo della questione è rappresentato da un’accusa giunta a Trump sia da destra che a sinistra: quella di essere anti-americano, o  per usare l’espressione apertamente maccartista sulla bocca di tutti i “moderati”, un-American. A ben pensarci tuttavia non sembra che esista al mondo una cosa più americana di un gruppo di pazzi mascherati che va a spaccare roba in giro: praticamente è così che son nati gli Stati Uniti, quando dei “patrioti” travestiti da indiani sono andati a vandalizzare le navi inglesi ancorate nel porto di Boston.

Ecco il punto, quindi: qualcuno doveva pur prendersi la responsabilità di ricordare che l’unico modo in cui le origini violente ed insurrezionaliste di una democrazia così giovane e fragile sono state mascherate nei secoli è stato attraverso i rigidi automatismi burocratismi e fair play politichese. Lo ha fatto lo sventurato Jack Dorsey, accettando sostanzialmente di auto-sabotarsi in nome di un ideale superiore, cioè la sua idea di America. Non dobbiamo sopravvalutare i “padroni del vapore” odierni: è gente che non ha alcuna capacità imprenditoriale ed è strutturalmente inadatta a interpretare gli eventi in prospettiva; da qui anche la difficoltà a rifarsi a un qualsiasi concetto di “Stato Imprenditore” e l’impossibilità di esprimere una linea “editoriale” che non sia quella del medio-progressismo di fantozziana memoria, una patina liberal verde-rosa-arcobaleno che possa garantire un minimo di stabilità. Ma affidarsi alla speranza che Biden possa “riunificare l’America”, e dunque scommettere che il Big Tech avrà un qualche ritorno se non commerciale, almeno morale, è già di per sé un passo falso rispetto alle regole di questo tipo di business.

Detto questo, lasciatemi ricordare la manifestante uccisa con un colpo al petto da un poliziotto in borghese (ma qualche fonte allude ai servizi) all’interno del Campidoglio: lode a Mishima e ad Ashli Babbitt. Si capisce perché una buona parte dei trumpiani all’amatriciana si sia data alla ricerca dell’infiltrato e al complottismo più spinto: questa gente, ha paura di morire. Mentre i barbari che hanno fatto irruzione nel sancta sanctorum del tempio, seppur pagati da Soros o da chissà chi (qual è l’ultima eminenza grigia degli ignavi?), hanno sicuramente messo in conto la possibilità di essere sforacchiati senza alcuna pietà. Se questo non è successo, è perché ogni epoca produce le tragedie che può permettersi; in ogni caso, il morto, anzi, la morta, c’è scappata.

È interessante notare come il rinomato giornalista Nicholas Kristof abbia potuto sostenere sulla prima pagina del New York Times che una prova del “privilegio bianco” [white privilege] risieda nel fatto che ai manifestanti sia stato concesso di “scavalcare la polizia e invadere il Senato”. Si tratta della stessa insinuazione fatta da Joe Biden: “Nessuno può togliermi dalla testa che se un gruppo di manifestanti di Black Lives Matter avesse tentato di assaltare il Campidoglio come la folla di ieri, sarebbe stato trattato in maniera molto diversa” (ricordiamo che a BLM per mesi è stato concesso di devastare le principali città americane, saccheggiando negozi e uccidendo cittadini indifesi).

Il “privilegio bianco” di cui tanto si vocifera è dunque questo: farsi sparare al petto (o al collo, le versioni divergono) da uno sbirro. Per i tempi che corrono, mi sembra l’unico programma rivoluzionario accettabile.

PS: Visto che è stato evocato, due parole su Yukio Mishima. Il suo seppuku viene interpretato come un’epitome della tradizione giapponese, ma tanti segnali portano a credere che in realtà agli occhi dei suoi connazionali esso sia apparso a tutti gli effetti come una “terronata” (absit iniura verbis), un beau geste eclatante di un artista che traduce suggestioni d’Occidente secondo categorie culturali orientali (per le quali, come è noto, il suicidio non è tabù). Non esistono studi o interpretazioni in tal senso: l’unica ad aver intuito questo profondo paradosso è Marguerite Yourcenar nel suo noto saggio. “Molte delle crisi emozionali di Mishima nascono da un’immagine tratta da un libro o da un film occidentale”. Proust, Balzac, la Grecia, Wilde, d’Annunzio. Singolare peraltro che il suo discepolo prediletto, Masakatsu Morita, quello che avrà il compito di dargli il colpo di grazia (ma fallirà per l’emozione), avesse proposto l’occupazione del parlamento da parte del piccolo “esercito privato” di Mishima (la famigerata Tate no Kai, Società degli scudi), ma che lo scrittore avesse rifiutato la proposta per timore di insuccesso. Una mossa troppo “occidentale”: la possibilità stessa di fallimento avrebbe generato una dialettica così pericolosamente “cristiana” tra vincitori e vinti. Meglio sbudellarsi: ma non è un caso che lo spettacolare seppuku del Nostro sia stato praticamente l’ultimo del Giappone moderno. Questo solo per dire che il gesto di Ashli Babbitt ha la stessa dignità di quello mishimiana: l’unica differenza è che la giovane americana non ha scritto romanzi (ma che capolavori sarebbero stati, alimentati da quella solidissima e fantasmagorica base ideologica che va sotto il nome di QAnon).

Per chi volesse approfondire il tema, mi permetto di suggerire due brevi scritti nei quali si discute l’assoluta refrattarietà delle destre occidentali all’idea di “suicidio politico” e l’esaltazione in contrapposizione dei propositi di martirio. Il “privilegio bianco” di cui blatera l’incensato columnist è insito nella possibilità di cercar la bella morte in una prospettiva inedita rispetto alla tradizionale militanza politica: si potrebbe quasi parlare di anti-martirio, nella misura in cui l’apparato politico-mediatico è disposto a tutto pur di negare dignità a una vittima (dal giustificare la brutalità poliziesca a invocare censura, processi sommari e tutto il resto, come possiamo osservare proprio in questi giorni).

“Uccidetevi anziché ribellarvi!” Sul suicidio come gesto politico

Morire per la causa. Martirio e suicidio nell’estrema destra

Exit mobile version