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Il ragionier Fantozzi al Colloquio di Gruppo

Oggi è obbligatorio regalarsi una bella visione-tributo a Il Posto, una di quelle con le quali purificarsi nell’ingenuità da spettatore e cogliere l’occasione per esprimere considerazioni estetiche, politiche e metapolitiche che in realtà hanno pochissimo a che fare con la pellicola in sé (Žižek docet). Proprio per questo ho dovuto immediatamente interrompere tale modesta “commemorazione” di Olmi per correre qui sul blog a togliermi dal groppone una cosa di cui dimentico sempre di parlare: il colloquio di gruppo.

È uno di quei temi che dovrebbero essere sulla bocca di tutti, ma che nei fatti non affronta nessuno, forse anche per l’eccessivo moralismo internettiano degli ultimi anni che ha tolto al mezzo la sua funzione principale di sfogatoio. Si potrebbe dar la colpa alla massificazione, ma più colpevole mi pare quel tipo di propaganda legata alle “rivoluzioni colorate”, che l’hanno caricato di responsabilità eccessive, le quali hanno poi portato all’ascesa dei populismi come naturale reazione a una funzione negata, se non a un vero e proprio dirottamento. È per questo, tra l’altro, che Soros ha  decretato la fine di Facebook allo scorso Davos (cosa che si sta puntualmente verificando con lo “scandalo” dei dati ceduti: oltre che filantropo, il Nostro è diventato pure profeta?), dopo averlo esaltato appunto durante le cosiddette “primavere arabe”. Ma non stavamo parlando di geopolitica e complotti, bensì solo di squallidissimi colloqui di lavoro. Quindi torniamo al punto.

Oggi gli esaminatori non possono più sottoporti problemini da scuola elementare, farti fare i piegamenti oppure chiederti cose come “Provi repulsione per l’altro sesso?” (io la denunzio!). In compenso possono sfogarsi con una delle esperienze più surreali nelle quali ci si possa imbattere ai giorni nostri: l’Assessment Center. L’espressione ormai è diventata idiomatica nella lingua di legno degli Addetti alle Risorse Umane, il cui lessico infarcito di soft skillscase studyproblem solving è già di per sé una sfida alla pazienza e all’umana tolleranza.

Tuttavia assessment center significa solo “colloquio di gruppo”, ed è in sostanza proprio quello che ci si aspetta: una sciarada. Viene posto un “problema” (non delle elementari, ma a un livello ancora più infimo, da cartone animato che si vedeva prima di andare a scuola) a una comitiva di sfigati (dalle 5 alle 15 persone) e gli si dà un po’ di tempo per accapigliarsi. Ora, con una semplice ricerca su Google potete trovare centinaia di siti pronti a offrirvi consigli non solo inutili (tipo “informarsi sulle attività dell’azienda”), ma anche contraddittori (per esempio, “cercate di mettervi in mostra ma non emergete sugli altri”; “siate voi stessi ma cercate di essere così o cosà” ecc…).

Ecco, in realtà posso assicurarvi per esperienza personale che nessun tipo di consiglio vi servirà, poiché non c’è assolutamente alcun modo di “azzeccarla” quando si arriva all’assessment: e non lo dico in quanto pessimista cosmico, ma semplicemente perché non esiste una cazzo di soluzione. Intendo dire che nella “simulazione di una situazione tipica” (che, come detto, è solitamente un misto tra il servizio di un telegiornale e una favola attualizzata), non importa che tu dia la risposta giusta o sbagliata: l’importante è che spari più stronzate possibili in modo da far finta di interessarti.

In tal modo pare che l’addetto possa valutare le tue “capacità” di “lavorare in gruppo” (pardon, in team), nonché i tuoi “atteggiamenti non verbali” e le tue capacità (ancora) organizzative. Devo ammettere che una volta, di fronte all’ennesima e infinita perdita di tempo, mi è capitato di sbottare, da vero personaggio olmiano (perché in fondo anch’io lo sono) con un vecchio detto lombardo: Chi vusa püsé la vaca l’è sua!

Ovvero, “Chi grida di più, la vacca è sua” (con ovvio riferimento al mercato boario). Il fatto è che mi ero trovato per l’ennesima volta il solito giovane meridionale svantaggiato con la terza media e con più brillantina che capelli a “dirigere il gruppo”, cioè a continuare a parlare fino al rincoglionimento o all’ipnosi dei suoi competitor (per esprimersi in “addettese”). A un certo punto il sangue longobardo (che sarà pure un po’ ligure, un po’ gallico e un po’ minchione, come diceva il Gadda, ma è da millenni il motore della civiltà italiana, europea e mondiale) mi è salito alle tempie e mi ha obbligato, una volta nuovamente faccia a faccia con l’addetto, a porre l’obiezioni essenziale: “Mi spiega come faccio a risolvere un problema senza soluzione? Non sono capace di dire la qualunque per mezz’ora, a un certo punto ho bisogno di qualche secondo di pausa per riconnettere il cervello alla bocca”. E il tizio lì mi ha spiegato che in realtà l’assessment non premiava in automatico chi assumeva l’atteggiamento del leader, ma anzi che persino la capacità di porre obiezioni sensate veniva valutata positivamente. “Ho capito”, facevo io di fronte all’appuntato, “ma se non esiste una soluzione giusta al problema, come si fa a formulare un’obiezione sensata? Anche quella rientra per forza nel parlare a vanvera. Per farle capire, visto che forse non sono chiaro: se 15 più 18 fa 33 e io invece mi metto a urlare FA 36 COJONE TO MARE PUTANA, è ovvio che non sto formulando un’obiezione sensata…” “Capisco, comunque questo lavoro non mi sembra adatto a lei”.

E ‘sti cazzi, Prima o poi qualcuno doveva dirlo. Quale tipo di valutazione è possibile trarre da tutto ciò, mi piacerebbe davvero saperlo. A volte mi viene il sospetto che sia solo il paravento a un mercato del lavoro bloccato: come a dire, facciamoli giocare così gli passa la frustrazione per un diniego già scontato. Altro che “oppressione della catena di montaggio” che si riflette su tutte le dimensioni della vita, qui è esattamente l’opposto: è il “gioco”, la ludicizzazione, che assume un carattere inquietante, quasi totalitario. Mi torna alla mente la coda dell’affaire Amazon, quello dei famigerati braccialetti, quando grazie a “La Stampa” scoprimmo che «fino a qualche anno fa, sul palmare dei dipendenti di Amazon c’erano quattro vite accese. Come quattro vite dei videogiochi. Ogni volta che il lavoratore commetteva un errore o ritardava lungo il percorso, il palmare se ne rendeva conto, suonava e cancellava una vita. Dopo quattro errori, si veniva convocati dal caposquadra. Che qui chiamano lead».

E comunque, in conclusione, la nostra realtà rimane ancora al di sotto del realismo olmiano, trovando perennemente in Fantozzi l’espressione più atta.

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