Il razzismo (non) si cura viaggiando: il turismo come forma di fascismo

“Il razzismo si cura viaggiando” era un vecchio motto della sinistra globalista degli anni ’10 del XXI secolo, attribuito nientedimeno che a Miguel de Unamuno (El racismo se cura viajando). Dopo la strumentalizzazione della pandemia da coronavirus, tutto è però cambiato nell’universo ideologico di quella lugubre fazione che le democrazie devono sopportare come mosca cocchiera: ora viaggiare è divenuta una pratica da irresponsabili untori, nonché forse un po’ razzista in se stessa.

Questo camaleontismo perenne della sinistra dovrebbe in primo luogo portare a interrogarsi su quanto tale parte sia risposta ad abdicare ai propri principi pur di mantenere il potere: siccome la pandemia è stata proclamata quando in Italia era al governo una specie di centro-sinistra, tutta la retorica sul mondo senza confini, sul “vero virus del razzismo“, sulla “contaminazione” come paradigma politico-culturale e sul “volto dell’altro” è stata repentinamente accantonata a favore del regime della peste.

Ecco perché la polemica contro il turismo, che stava lentamente avanzando a destra nella misura in cui tale pratica veniva a rappresentare la punta di diamante del social-liberismo globale, in un attimo ha cambiato di campo ed è passata a “sinistra”, una sinistra giallo-rossa che naturalmente non può condividere nulla, ad esempio, con la grintosa turistofobia degli squatter catalani.

Dovremmo or dunque adattarci (noi “fasci”, intendo) ai tempi che cambio e rivalutare il turismo, o almeno il viaggiare, come pratica politicamente scorretta o addirittura controrivoluzionaria? Il materiale su cui lavorare è molto. Il primo pensiero va alla ditta Ettore Moretti di Milano, che si faceva fare i manifesti da Gino Boccasile e aveva ideato diverse linee di prodotti adatti all’avventura come tende da campeggio o mobili pieghevoli da campo. Così faceva una brochure del 1935:

“Molte circostanze della dinamica vita moderna, portando spesso gli uomini lontano dai centri abitati, creano la necessità di prontamente disporre, per gli stessi, di ricoveri che diano affidamento non solo di una certa stabilità, ma pure di determinate comodità. Per il compimento di opere pubbliche, costruzioni, lavori stradali, per ricerche scientifiche o per l’esplorazione di terre ignorate, o per diletto dello spirito e del corpo, e finalmente per necessità militari”.

Il pezzo forte della Moretti fu la Sudanese, poltrona ideata nel 1917 dal designer tedesco Bernard Marstaller e ripresa sul finire degli anni Sessanta del secolo scorsa dalla ditta Zanotta.

Colonialismo e turismo nel Ventennio condivisero un linguaggio comune. Per farsene un’idea, basta sfogliare una Guida dell’Africa Orientale Italiana (presente in diversi esemplari su Amazon) pubblicata dalla Consociazione Turistica Italiana nel 1938. Riportiamo alcune annotazioni di carattere etno-psicologo e linguistico solo a titolo d’esempio.

Contegno con gl’indigeni dell’Africa Orientale Italiana

«L’Abissino (sotto questo nome s’intendono i tigrini, gli amara, gli scioani e altre popolazioni che con essi convivono) è di carattere chiuso, molto orgoglioso, volubile e, come tutti gli orientali, dissimulatore e accorto parlatore. Il Gálla e il Sidáma sono in generale di carattere più aperto, generosi, facili all’entusiasmo, ma deboli di volontà, mutevoli e indolenti. Il Somalo è in generale d’intelligenza sveglia, generoso, ma anche spesso indolente e dissimulatore. In generale, tutti coloro che sono venuti a contatto con gl’italiani riconoscono la nostra superiorità e i vantaggi della nostra civiltà; e soprattutto i giovani accolgono con gioia le novità che l’Italia porta dovunque, imparano con sorprendente rapidità l’italiano e sono pronti a lavorare e progredire. Tutti hanno un senso acuto della giustizia e dell’autorità. Gl’Italiani con il loro carattere umanissimo e con l’istintiva penetrazione psicologica, hanno già stabilito un equilibrio nei rapporti con gl’indigeni: non altezzosità e separazione assoluta, ma superiorità e comprensione. Occorre trattare con giustizia e bontà, ma senza debolezza; saper diffidare è buona regola; troppa familiarità è fuori luogo.
Gli Eritrei e i Somali sono orgogliosi di appartenere da gran tempo all’Italia e di aver contribuito alla conquista dell’Impero; ascari e dubat godono di grande prestigio in tutta l’Africa Orientale Italiana. Essi si considerano, di fronte agli abissini, quasi pari agl’Italiani e loro naturali collaboratori. Di questo spirito e dei loro meriti, riconosciuti solennemente dal Governo Fascista, è doveroso tener conto nel trattare con loro; scambiarli per etiopici sarebbe grave offesa e ingiustizia.
Sono noti i provvedimenti presi dal Governo Fascista per la difesa della razza e per evitare la formazione di un deprecabile meticciato»

Le lingue dell’Africa Orientale Italiana

«Nei maggiori centri dell’Eritréa e della Somália, l’italiano è compreso pressoché da tutti e l’uso si va diffondendo rapidamente negli altri Governi. Nei maggiori centri e lungo le strade dell’Impero etiopico si trova facilmente chi può servire in qualche modo da interprete.
L’Africa Orientale Italiana è un mosaico di lingue e dialetti svariatissimi. Le lingue più diffuse sono l’amarico, già lingua ufficiale dell’Impero negussita, parlato dagli abissini propriamente detti nello Scióa e nell’Amára; il tigrè e il tigrái parlati nell’Eritréa; il sáho e il dáncalo; l’orómo o gálla, parlato nella varietà dei suoi dialetti dalle popolazioni galla dallo Harár a Gambéla e dal Nilo Azzurro al confine Sud; il sidáma, che pure comprende una varietà notevole di dialetti, parlati dai Sidáma dalle sorgenti dell’Uébi Scebéli a Dembidóllo; il sómalo, parlato in Somália e nella parte Sud-Est del Governo dello Harár; l’agáu, parlato in parte dell’Eritréa e parte dell’Amára; l’harári, parlato in Harár; l’arabo, compreso e usato nei porti e da molti commercianti, lo suahíli, parlato nella Somália meridionale, ecc.
[…] Alla grandissima varietà delle genti corrisponde altrettanta varietà di linguaggi. Gli abissini (ivi compresi le popolazioni tigrè dell’Eritréa) parlano tre lingue semitiche principali derivate del gheèz, antica lingua ancora usata nella liturgia copta; il tigrè, parlato nel Nord e nel Nord-Ovest dell’Eritréa (Massáua, Habáb, Chéren); il tigrái o tigrignà che è la lingua dell’altopiano eritreo e del Tigrài; l’amárico, già lingua ufficiale dell’Impero etiopico, parlata dagli Amára e dagli Scioani e diffusa dai dominatori scioani e amara nei principali centri anche del Sud e Sud-Ovest. Il gheèz e le sue derivazioni tigrè, tigrài e amárico hanno uno speciale alfabeto, molto decorativo, che ebbe origine dal sudarabico; ecco comprende attualmente 37 segni basilari, con 214 modificazioni per esprimere vocali.
Pure di origine semitica sono il guraghé, parlato dalle omonime genti a Sud dell’Auásc, tra il lago Zuai e il fiume Ómo, e l’harari (Haràr città), che usa l’alfabeto arabo. L’arabo è del resto parlato in tutte le località costiere e abbastanza conosciuto, specialmente nel Sud-Est e nell’Est, sia per l’influenza dell’islamismo, sia per i rapporto commerciali.
L’oromo o galla, è parlato dalle popolazioni omonime in vari dialetti raggruppati in: dialetti orientali (Arússi e zona di Haràr); dialetti Tulamà (Scióa); dialetti Méccia (Gímma, Límmu, Gúma, Liecà, Nónno). Si scrive con caratteri latini.
I Sidáma parlano linguaggi divisi, come le popolazioni, in 4 gruppi: dialetti Sidáma orientali, dell’Omo, centrali o Iamma o Giangerò, occidentali o Gónga; i linguaggi più diffusi sono l’uolamo, parlato sulle due rive dell’Ómo, e il caffino.
L’agáu comprende numerosi dialetti parlati nell’Amára e nell’Eritréa, spesso riservati ai rapporti familiari, mentre nei rapporti esterni è usato l’amarico o il tigrai delle popolazioni circostanti. Sembra che il dialetto agáu del Quarè o quaresà sia la lingua della religione Falascià. Il begia è parlato dalle genti begia nel Nord dell’Eritréa, ma tende a essere sopraffatto dal tigrè. Il saho è la lingua dei Sáho (Teora, Assaorta, Miniferi, ecc.) stanziati a Sud della ferrovia Massáua-Ghinda fino alla Dancália; l’afár o dáncalo è parlato dai dancali.
Il sómalo, pure appartenente al gruppo cuscitico, è il linguaggio di gran lunga prevalente nella Somália Italiana, parlato pure nella parte Sud ed Est dello Haràr; esso comprende 3 gruppi di dialetti: dialetti Daròd, parlati nella Migurtínia, nella parte Nord e centrale di Óbbia e nell’Oltregiúba; dialetti Hauìa, parlati nella parte meridionale della regione di Óbbia, in tutto il medio bacino dell’Uébi Scebéli e a Ovest dell’Uébi nella regione del Galgiàl; dialetti Dighìl, parlati tra Uébi e Giúba e sul basso Uébi a valle dei dialetti Hauìa. Sarebbero poi ancora conservati in Somália linguaggi di cacciatori Uabóni e Uasánie; il bravano è un linguaggio bantù, così come il bagiuni (isole Bagiuni), affine al suahili.
Linguaggi negri bantù sembrano quelli dei Berta e dei Gunza del Béni Sciangùl, e sulla riva destra dell’Abbài. Linguaggi nilotici sono quelli dei gruppi nilotici dei Bária e Cunáma, dei Nuer, Iámbo, Miechèn, Turcána, Bácco, Cónso, ecc.».

Forse il vero punto di partenza potrebbe tuttavia essere l’incredibile figura di Giuseppe Tucci (1894-1984) orientalista ed esploratore al quale la studiosa Enrica Garzilli nel 2012 ha dedicato una monumentabile biografia in due volumi, L’Esploratore del Duce.


Come ha raccontato l’Autrice stessa in una bella intervista a Pangea.news,

«Amava le sue montagne e la cultura del Tibet perché erano il contrario della civiltà moderna, diceva lui, veloce e che omologa tutto. Studiava una civiltà antica e lontana, camminava a piedi, sul mulo o a cavallo, dormiva in tenda. Anche se durante le spedizioni e dopo, per gli scavi, usava tutti i più moderni mezzi tecnologici del momento. Per il resto si professava buddhista, ma il suo buddhismo era del tutto particolare: seguiva i dettami del “di quello che fai ne devi rispondere solo alla tua coscienza”. Cosa che ovviamente non è incoraggiata dal buddhismo di nessuna scuola, che invece è rispettoso e attentissimo al rapporto dell’uomo con tutto ciò che lo circonda, uomini, animali, piante, cose, situazioni […].
Il Duce in Oriente voleva aiuti nella sua lotta contro l’Impero Britannico. Sosteneva i musulmani e i movimenti insurrezionali pubblicamente, sin da un discorso del 1921, quando disse riguardo all’India che “il raggiungimento della sua indipendenza non è più una questione di possibilità; è una questione di tempo”. Aveva anche sogni di gloria verso l’India: la penetrazione economica, culturale e, se possibile, una colonizzazione, che per lui, ancorato al vecchio modello di colonialismo, significava massiccio spostamento di persone nel paese colonizzato: “Le Indie sono proprio il forziere del mondo. Bisogna che l’Italia le possieda. Poco importa cosa diranno gli Inglesi. I legionari fascisti s’incaricheranno di farli tacere…”».

D’altro canto, esiste una destra dal “cuore avventuroso” che va dal Jean Raspail membro della Società degli Esploratori Francesi e Console Generale della Patagonia (sic), alle spedizioni delle SS-Ahnenerbe in Tibet, dai diari di viaggio di Ernst Jünger alla ricerca della “Sardegna interiore” (per certi versi un’impresa ben più ardita di quella tucciana) fino alle sortite giapponesi di Karl Haushofer ecc…

Il materiale non manca. Bisogna capire se la gauche caviar abbia davvero intenzione di dichiarare il turismo “fascista” in nome della salute (intesa anche come “salute di Gaia”, in una prevedibile continuazione del gretinismo col covidiotismo) oppure se si tratta solo di una fase passeggera dettata da squallide esigenze di poltrona. Qualche avvisaglia stava emergendo in tempi non sospetti con gli appelli a un “turismo responsabile”: forse eravamo già a una svolta ideologica epocale e gli starnuti hanno solo accelerato il decorso dell’ennesima rivoluzione fallita.

Il turismo come forma di guerra di non convenzionale

In ogni caso noi abbiamo sempre risorse infinitamente più solide di quelle della parte avversa, che in fondo si è ridotta a modellare le proprie esperienze all’estero sulla base della sezione “Viaggi e Avventura” di Netflix.

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