Il “regalo di Natale” di Israele alla Siria

Secondo il ministero della Difesa russo, il giorno di Natale Israele avrebbe tentato di ingannare la contraerea siriana “nascondendo” un F-35 e un F-16 dietro due aerei civili russi, uno in procinto di atterrare a Damasco e un altro in avvicinamento a Beirut.


In tal modo lo Stato sionista voleva probabilmente ripetere la tragica “beffa” che aveva già giocato all’esercito di Assad, quando il 17 settembre 2018 aveva utilizzato da “scudo” per i suoi f-16 un altro aereo russo, un Il-20 con a bordo 15 militari sfortunatamente abbattuto dal fuoco amico a Latakia.

Anche se il false flag non è riuscito e la difesa aerea siriana ha intercettato 14 dei 16 missili israeliani, secondo alcune fonti il bombardamento avrebbe colpito alcuni alti ufficiali di Hezbollah.

Negli ultimi mesi attacchi di questo tipo di erano calati proprio grazie alla pressione diplomatica della Russia, che in occasione dell’incidente di Latakia aveva immediatamente puntato il dito contro Tel Aviv scagionando l’alleato siriano da qualsiasi responsabilità.

Ora sembra però che con l’annuncio di una preliminare “smobilitazione” americana dall’area, Israele abbia deciso di riprendere le provocazioni e gli attacchi preventivi. L’attivismo ebraico ha evidentemente anche una valenza interna, non solo perché si approssimano le elezioni ma soprattutto perché tutta la grande stampa, da destra a sinistra, sta creando nel Paese un’ansia collettiva in seguito alle dichiarazioni di Donald Trump.

L’argomento è imbarazzante e controverso, perché tocca il punctum dolens del rapporto israelo-americano: del resto non è un caso che  anche negli Stati Uniti i mass media stiano alimentando l’isteria collettiva da entrambi gli schieramenti Infatti, mentre i democratici cavalcano sempre la storia del Russiagate (presentando il ritiro come un “regalo a Putin”), i repubblicani legati all’establishment (ancora pesantemente influenzato dalla disastrosa stagione neocon) “prevedono” direttamente un nuovo 11 settembre qualora l’America lasciasse incustodita una sola iarda di terra in Medio Oriente.

Come contorno, vengono proposte improbabili storie di militari “delusi” dall’idea di dover tornare a casa, quando invece nell’esercito l’approvazione per il Presidente sempre più alta e anche tra le truppe comincia a serpeggiare il sospetto che l’infinita guerra in cui sono si trovano incastrati non abbia nulla a che fare con la difesa degli interessi della propria nazione.

Inoltre tantissimi sostenitori dello Stato ebraico negli Stati Uniti (ma non vogliamo parlare di una lobby, tranquilli) si nascondono dietro agli “eroi curdi” per nascondere una politica all’insegna dell’Israel First. Sono cose già note ma che purtroppo non si possono ancora dire apertamente: è risaputo infatti che il primo sostenitore di un “Kurdistan indipendente” in Medio Oriente è proprio Israele, il quale vorrebbe creare un altra entità a sua immagine e somiglianza. Al contrario Trump, e con lui tutte le sane frange isolazioniste (che seppure ridotte ai margini continuano ad influenzarlo), credono che un secondo Israele nell’area creerebbe più problemi del primo.

È naturale che più la presidenza attuale consoliderà il proprio potere, più si porrà il problema della coincidenza degli interessi di Washington e Tel Aviv in quell’immensa regione che gli anglofili definiscono MENA. A questo punto bisogna aspettarsi di tutto, anche se forse il fatto che Israele abbia riprovato lo stesso giochetto del false flag con i russi senza puntare agli americani lascia sperare che Trump sia stato abbastanza chiaro con i suoi “alleati” (peraltro avendo già pagato loro il prezzo di Gerusalemme capitale). Inoltre non sembra che l’opinione pubblica d’oltreoceano sia ancora disposta a lasciarsi trascinare in qualche nuova crociata, probabilmente nemmeno di fronte al più spettacolare casus belli. Pare che gli yankee vogliano davvero tornarsene a casa e basta.

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