Il robot che salva la bambina

Un robot creato dall’Università di Perm’ (Russia) avrebbe salvato una bambina bloccando gli scaffali sui quali si era arrampicata un attimo prima che la travolgessero. Dal momento che ne hanno parlato il “Corriere” e “Repubblica”, si è avuto l’immediato sospetto che fosse una “bufala”. E in effetti è proprio così: si tratta di una trovata pubblicitaria di un gruppo di scienziati, gli stessi che l’anno scorso avevano mandato un altro “Promobot” (il nome dice già tutto) in giro per le strade di Perm fingendo che fosse scappato dal laboratorio.

Da un’osservazione più attenta del filmato, si nota che la bambina reagisce a un’indicazione ben precisa, che gli scatoloni sono vuoti e, soprattutto, che il robot è piazzato lì proprio per eseguire quel tipo di compito. La vera “bufala”, infatti, è che  l’automa, a detta di uno dei creatori, avrebbe agito di propria iniziativa, riuscendo a intuire da solo la situazione di pericolo e salvando così l’irrequieta pargoletta. Una storiella che, per l’appunto, solo la grande stampa potrebbe creder vera (o almeno spacciare per tale).

Il discorso andrebbe esteso a tutta la paranoia sui robot che sviluppano l’autocoscienza e si mettono in testa di sottomettere il genere umano. Un tema di valore squisitamente letterario, che nasconde la banalità della questione: una macchina può funzionare o meno, e la sua “funzione” è quella per cui è stata creata. Tuttavia, dopo aver antropomorfizzato qualsiasi cosa ci capisse a tiro, era inevitabile che arrivasse il turno dei robot: di conseguenza, anche se una macchina è programmata per fare cose a cazzo, si può ormai ormai far credere a chiunque che essa sia dotata di vita propria. Da tale prospettiva si può quindi comprendere, per esempio, il clamore suscitato da un braccio meccanico che “decide” di pungere il dito di una persona: per citare ancora “Repubblica” (Ideato un robot che decide se ferire le persone, 13 giugno 2016), «l’intelligenza artificiale decide arbitrariamente se far partire un ago che punge il dito, violando in tal modo la prima delle tre regole che Asimov aveva “dettato” per i robot protagonisti dei suoi romanzi di fantascienza».

Abbiamo già discusso i motivi per cui ci piace credere a certe favole “tecnologiche”: senonché il rischio di seguitare a discutere di cibernetica attraverso le categorie del “prodigioso” o del “miracolistico”, è che prima o poi l’umanità venga davvero soggiogata dalle macchine, per il semplice motivo che sarà troppo stupida per capire come funzionano.

Tale scenario risponderebbe peraltro al classico archetipo della élite che detiene il monopolio robotico e può quindi estendere il suo potere all’intero universo. Esiste nondimeno la possibilità che, qualora diventassimo tutti scemi, anche i robot comincerebbero a “imitarci”: nella simpatica distopia Idiocracy (2006), per esempio, la tecnologia più avanzata è ridotta a condurre operazioni elementari proprio perché il quoziente intellettivo medio generale si è abbassato a livelli di ritardo mentale.

Credo, in conclusione, che chi si occupa di giornalismo scientifico dovrebbe rileggersi qualche pagina del caro vecchio Spinoza:

«Chiunque cerca le cause vere dei prodigi e si preoccupa di conoscere da scienziato le cose naturali e non di ammirarle da sciocco, è ritenuto generalmente eretico ed empio, ed è proclamato tale da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli Dei. Essi sanno, infatti, che distrutta l’ignoranza, o meglio la stupidità, è distrutto anche lo stupore, cioè l’unico loro mezzo di argomentare e di salvaguardare la loro autorità».

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