Le polemiche sollevate per il gesto compiuto da Elon Musk durante l’insediamento di Donald Trump, confuso per un saluto romano ma in realtà un’innocente espressione di autismo, offrono l’occasione di raccontare una storia alternativa (non quella con cui ci intortano i “vincitori”!) riguardo a questa movenza particolare, che come è noto -per entrare subito in medias res– un giovane Benito Mussolini adottò dopo averla appresa da Buffalo Bill.
Certe nozioni non si possono ovviamente trovare sui libri di storia (se però volete comunque sfogliarne uno, accomodatevi, non sarò di certo io a impedirvi di sprecare il vostro tempo!), ma si devono necessariamente suggere dalle vive labbra di chi le tramanda per generazioni. Se poi proprio ci tenete alle “pillole di storia”, allora dovreste essere già al corrente che il poliedrico Buffalo Bill, al secolo Domenico Tambini, un emigrante originario della provincia di Forlì, nel 1906 si era prodotto in una strabiliante tournée italiana che aveva naturalmente toccato anche la Romagna.
È in quei frangenti che il futuro Duce, all’epoca insegnante e giornalista, recatosi probabilmente a vedere uno spettacolo del Wild West Show, apprese da Buffalo Bill che gli indiani americani nel salutarsi stendevano il braccio teso, originariamente allo scopo di mostrare che non impugnassero armi e dunque venissero in pace.
Ai tempi il poco più che ventenne Benito provava un’incredibile imbarazzo alle prese con la fatidica “stretta di mano”: lo sconvolgeva in particolare il tocco di un altro uomo, e lo terrorizzava la possibilità che la mano altrui fosse sudata o addirittura sporca. Ancor di più lo indignava il fatto che tale movenza fosse considerata un’espressione di virilità, e che i maschi facessero a gara nello stringersi il più forte possibile le reciproche estremità, in una perversa chiromachia intrisa per giunta di un disdicevole e viscido omoerotismo.
Ecco perché accolse con entusiasmo la possibilità che si potesse finalmente stendere il braccio senza dover più tastare le zampacce altrui: è chiaro che, per far accettare l’avanguardistica trovata alle masse ottuse e misoneiste dovette ricollegarla al mito romano, trovando poi un’indispensabile sponda nel successo di Cabiria, opera nella quale il gesto -secondo indicazione dannunziana– venne proposto al grande pubblico come rappresentazione icastica della gloria di Roma.
A questo punto sarebbe quasi d’obbligo ipotizzare da una parte una qualche forma di autismo in Mussolini (comunque dotato di una personalità complessa e contraddittoria, caratterizzata da un forte narcisismo) e dall’altra un’altrettanto vaga virtù “terapeutica” del saluto romano. Tuttavia, senza addentrarsi in questione così spinose, si potrebbe almeno affermare che l’autismo, spesso accompagnato da difficoltà nelle interazioni sociali, può rendere alcune forme di contatto fisico (come per l’appunto una stretta di mano) delle esperienze molto stressanti.
Se dunque una persona dichiarasse che adottare il saluto romano l’ha “aiutata” a superare tali difficoltà, obiettivamente non ci sarebbe nulla di sconvolgente. Del resto, la “ritualità” in questo tipo di symbolic gesture genera un salutare senso di sicurezza: il braccio che si stende come espressione di controllo dei propri spazi e di un’ordinata manifestazione di socialità, senza i compromessi che il contatto fisico comporta.
Il saluto romano è perciò una forma di interazione strutturata che può garantire una sensazione concreta di definizione dello spazio personale, un gesto semplice che comunica chiaramente: “Sto interagendo con te, ma mantenendo una distanza”. I gesti ritualistici, più in generale, sono associati a un senso di ordine e appartenenza. Il saluto romano, in questo contesto, potrebbe essere visto come un mezzo per affrontare ansie sociali in modo codificato e non ambiguo.
Non è ridicolo, in fondo, che proprio in un’epoca come una nostra, il gesto elegante, minimale e brioso di stendere il braccio venga messo da parte per l’espressione forse la più tossica di “mascolinità”, quella “stretta di mano” che, per toccare qualche nervo scoperto della nostra società, il patriarca impone al potenziale genero come una sorta di “rituale di iniziazione” col quale trasferire la proprietà della prole femminile al bruto che riuscirà a stringere più forte?
Questa è quasi una rappresentazione plastica di una società fintamente basata sulla tolleranza e la sensibilità: la stretta di mano, spacciata come gesto di fiducia e rispetto reciproco, è in realtà l’epitome della brutalità barbarica che coloro i quali si scandalizzano della sortita di Elon Musk vorrebbero strumentalizzare per imporre il loro sistema disumano, basato solo sull’arrivismo e la sete di potere.
Al confronto, quanto invece risulta puro, pulito e leggiadro un braccio che si stende da una coscienziosa distanza di sicurezza verso chi ci viene incontro, come simbolo di un’apertura sincera all’Altro, una negazione della dominanza, della sopraffazione e di certe artefatte gerarchie che andrebbero definitivamente consegnate al passato.
Se vogliamo vivere in una società coerente con i valori che proclama, forse è davvero giunto il momento di rivedere i nostri gesti e rituali. Forse dobbiamo abbandonare ciò che è simbolo di conflitto e adottare movenze che riflettano un’autentica apertura reciproca. Il gesto di stendere il braccio potrebbe essere una provocazione interessante, una metafora di un approccio più inclusivo e meno basato su vestigia di violenza e barbarie.
Ci sarebbe il libro del professor Martin Winkler (solo in inglese?). Egli riconduce (cito a memoria) il saluto romano alle esigenze di teatralità ed esotismo dell’adattamento teatrale di Ben-Hur. Da lì sarebbe passato al primitivo cinema “togato”, dove era all’occorrenza usato anche da Greci, Cartaginesi, Ebrei ecc. e fatto col braccio destro o sinistro purché in favore di cinepresa (per non coprire il volto dell’attore). Però nel western americano rimase effettivamente in uso come saluto “indiano” almeno fin agli anni Settanta.