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Il secondo o terzo dibattito Trump-Biden (comunque l’ultimo, per fortuna)

L’ultimo dibattito Trump/Biden tenutosi ieri sera è finalmente piaciuto ai media: anche se i due si sono confrontati sugli stessi argomenti del primo (e del secondo in differita), stavolta sono stati “educati” e perciò i giornalisti si sono degnati di prestare ascolto. Va bene così, anche se alla fine a parte decretare per la terza volta che “ha vinto Biden” (sempre sulla fiducia) la stampa si è nuovamente concentrata sulla forma e non sulla sostanza. Non che, ripetiamo, si sia così ingenui da credere che lo stile non sia l’uomo e che l’approccio “contenutistico” valga anche per il primo ubriacone che sbraita in strada, ma questa “etichetta” imposta dai mass media si dà il caso non riguardi la buona educazione, ma una ridda di tabù e dogmi orwelliani che oscure agenzie culturali vorrebbero imporre al dibattito pubblico.

Ad ogni modo, dato che i temi sono stati gli stessi, non è il caso di dilungarsi troppo perché la posta in gioco è chiara, indipendentemente dal fatto che entrambi i candidati siano “vecchi bianchi etero” eccetera eccetera (questa è il problema della dicotomia forma/sostanza a cui accennavamo: anche se due politici hanno idee completamente diverse, è il genere o il colore della pelle ad accomunarli implicitamente – dunque la “maleducazione” imputata dai media era fondamentalmente quella di non essere due lesbiche di colore).

Primo tema, coronavirus: Trump dice che ha fatto bene a chiudere i confini per la “peste cinese” ma al contempo rifiuta l’idea di un altro lockdown (“La cura non può essere peggiore della malattia”), annuncia il vaccino (“Pronto in poche settimane, o forse alla fine dell’anno, verrà distribuito direttamente dall’esercito”); Biden prevede un “inverno di tenebre” se l’avversario venisse rieletto, invita gli americani a indossare le mascherine e per evitare un altro blocco propone una ricetta a base di distanziamento sociale, test rapidi e plexiglass (ma Trump: “Come si fa a cenare chiusi in un cubo di plastica?”). Gustoso il siparietto sulla xenofobia: il Presidente in carica chiama in causa Nancy Pelosi per aver ballato a Chinatown mentre lui bloccava le frontiere e si beccava del “razzista”, Biden risponde che in verità le accuse di xenofobia erano in generale e non riguardavano l’aver bloccato i voli dalla Cina (ah, ok!).

Secondo tema, sicurezza nazionale: i soliti hacker (non solo russi, ma anche iraniani e forse cinesi) vogliono interferire nelle elezioni americane, si sa. Questa volta però Trump può controbattere al complottismo del Russiagate con l’affaire Burisma in cui è coinvolto il figlio di Biden, che sarebbe stato aiutato dal padre, allora vicepresidente, a fare affari d’oro in Ucraina. Il candidato democratico però sostiene che tutto lo scandalo sia stato appunto montato ad arte dai russi che non vogliono venga eletto perché “mi conoscono bene” e sanno che darà loro filo da torcere. Trump nega di essere amico di Putin e afferma di aver venduto missili anticarro a Kiev. Biden allora la butta in caciara: il tycoon ha dei conti in Cina e probabilmente viene corrotto da potenze straniere attraverso le sue catene alberghiere; Trump ha gioco facile a ribattere che il famoso “conto pechinese” è rimasto aperto solo dal 2013 al 2015 (prima della sua precedente candidatura quindi), quando ha considerato che gli investimenti nel gigante asiatico non fossero così convenienti.
Alla fine Biden sembra però rimettersi in carreggiata, contestando a Trump di aver fatto troppo “l’amicone”, oltre che con Putin anche con Xi Jinping e con “quel tizio nordcoreano” (non gli viene il nome), annunciando il ritorno alla politica dei trattati internazionali come paradigma per i rapporti con l’estero (nostalgia del soft power in salsa obamiana nonostante gli insuccessi?). Quello che fondamentalmente l’ex vice di Obama contesta all’avversario è l’informalità della politica di appeasement: piuttosto che sanzioni dirette, Trump preferisce il basso profilo (perciò si vanta di aver messo in difficoltà Pechino non tramite attacchi diretti ma con le sanzioni, la detassazione e i sussidi al manifatturiero americano); per Biden tutto ciò è sbagliato, perché “Abbiamo avuto buone relazioni anche con Hitler prima che invadesse l’Europa”.

Terzo tema, economia: si parte dall’Obamacare (perché per gli americani l’economia è ancora “legge dell’oikos” e non “sacrifici umani per ridurre il debito pubblico”), che entrambi vorrebbero perfezionare, il primo demolendolo e il secondo rimpiazzandolo con un Bidencare (wow!). Sono tutte e due piuttosto “moderati” sul tema, quindi in contrasto coi rispettivi falchi di partito (gli estremisti del pubblico o del privato): ad ogni modo sembra che l’idea di una riforma  necessaria del sistema sanitario sia ormai patrimonio comune della politica statunitense e questo è senza dubbio positivo.
Si tocca poi al problema del salario minimo: Trump sostiene che non va innalzato indiscriminatamente perché 15 dollari hanno un valore diverso a New York e nel Vermont, mentre Biden fa il working class hero e ci aggiunge pure un rilancio di investimenti nella scuola e sussidi a medie e piccole imprese.

Quarto tema, immigrazione: Trump accusa ripetutamente Biden di aver “costruito le gabbie” in cui sono finiti i famosi bambini messicani. In tal caso il dibattito è stato un tripudio di sentimentalismo, tra buonismo (Biden: “chi penserà ai bambini, e ai dreamers!”) e cattivismo (Trump: “arrivano stupratori ladri assassini ecc”). Così è un po’ in tutto il mondo. Forse Trump avrebbe fatto bene, come le volte precedenti (quando i cronisti purtroppo non ascoltavano) a legare la questione dell’immigrazione a quella del lavoro e non della giustizia (senza manodopera a basso costo i salari degli autoctoni si alzano), ma il clima era quello e il Nostro ha reagito di conseguenza.

Quinto tema, questione razziale: Biden dice che sua figlia, assistente sociale, ha sperimentato sulla pelle dei suoi assistiti il “razzismo istituzionale” (qui va bene tirare in ballo la famiglia). Trump oltre a buttarla sull’anti-politica (Biden è un faccendone di Washington da 47 anni, non ha fatto niente per i neri), sostiene molto modestamente che “nessuno ha fatto più di me, a parte forse Lincoln” (ma ride quando lo dice) tramite la riforma della giustizia, del sistema carcerario, il programma delle Opportunity zone e l’abolizione dei limiti di finanziamento ai college storicamente neri. Biden lo apostrofa come “il tizio che si crede Lincoln”, ma che in realtà “è il presidente più razzista di tutti i tempi”.

Sesto tema, cambiamento climatico: per Trump il piano dell’avversario è AOC plus 3, cioè ispirato al famigerato green new deal della Ocasio-Cortez (assieme alle colleghe ultra radicali Ayanna Pressley, Ilhan Omar and Rashida Tlaib), una follia utopistica (pipe dream) che costerà centomila miliardi di dollari e manderà milioni di americani a spasso. Per Biden invece la transizione verso una green economy oltre a creare quasi 20 milioni di posti di lavoro, è soprattutto un obbligo morale: il democratico la butta sul personale, ricordando la sua adolescenza nel Delaware circondato da fabbriche che inquinavano e facevano ammalare la gente. Così però offre il destro a Trump di accusarlo di voler “rottamare” l’intera industria americana. In tal caso è il Presidente in carica a cavarsela facilmente, da una parte riducendo tutta l’energia rinnovabile a una barzelletta (“le pale eoliche uccidono gli uccelli, il solare non serve a nulla”) e dall’altra mettendo alle strette Biden sul fracking, tanto che a un certo punto scavalca la conduttrice e la obbliga a porre la domanda al candidato democratico, che come al solito si impappina su una delle sue numerose spine nel fianco (è noto che i dem considerano la cosiddetta “fratturazione” come estremo tentativo dell’industria pesante di dire la sua in un mondo fatto solo di colonnine elettriche e pannelli fotovoltaici).

Infine, una domanda sulla leadership: cosa direte agli americani nel vostro discorso d’insediamento? Trump non potrà fare a meno di ricordare di essere il miglior presidente di sempre, mentre Biden mette tutto sul piano morale ed emotivo: con lui gli Stati Uniti rivaluteranno la scienza contro la fiction, la speranza contro la paura, e poi recupereranno la decenza, l’onore, il rispetto e la dignità. Perché alla fine, come ricordiamo sempre, è soprattutto sul fattore psicologico che Biden potrebbe trionfare alle urne.

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