I più ignorano che il termine meritocrazia originariamente nacque come sinonimo di tecnocrazia: venne infatti creato nel 1958 dal il Barone (letteralmente!) laburista Michael Young (1915–2002) per identificare il controllo dittatoriale ed elitario dei potenti sulle masse.
Il suo saggio in forma di romanzo distopico, The Rise of Meritocracy 1870-2033, tradotto meritoriamente (absit iniura verbis!) dalle Edizioni di Comunità già nel 1962 e riproposto in una nuova edizione nel 2014, ammonisce la sinistra inglese dal trasformare la “meritocrazia” in una causa progressista.
Per i casi strani della storia L’avvento della meritocrazia, nonostante fosse un racconto molto meno ambiguo del Brave New World di Aldous Huxley, non si sa né perché né percome è diventato il manuale del piddino internazionale. Nelle periferie dell’impero, e in particolare nella provincia italiota, il concetto è poi assurto a una dimensione salvifica: meritocrazia come panacea di tutti i mali che affliggono il “sistema-Paese”.
Solo a titolo d’esempio, posso citare come araldo ufficiale del grande equivoco l’editorialista del “Corriere” Roger Abravanel, che in un suo saggio del 2008 (intitolato… Meritocrazia) depura il libro di Young da ogni connotazione negativa riducendone il messaggio centrale ad una “ambiguità”:
«Oggi Michael Young viene considerato dai suoi stessi “discepoli” (a Londra è attiva una fondazione che porta il suo nome, creata dopo la sua scomparsa nel 2000 [sic]) “ambiguo” nei confronti della meritocrazia. Lo dimostra anche la struttura del suo libro, in cui l’autore si sdoppia in due persone: la prima è un narratore giovane ed entusiasta, che illustra i vantaggi della meritocrazia; l’altra è l’autore, ma più vecchio e più saggio, che di tanto in tanto lancia qualche “siluro” ironico. Le critiche dello Young “meno meritocratico” paventano un rischio effettivo, che in parte si manifesta già: la nascita di una tecnocrazia fondata sui test di intelligenza e sulla stratificazione in nuove classi basate unicamente sui risultati accademici. Young metteva in guardia contro i rischi di una società eccessivamente meritocratica, nella quale ciò che all’inizio sembra giusto degenera in un regime spietato in cui l’élite meritocratica esercita un completo controllo della società».
Quando si giunge a tali livelli di incomprensione, si annusa la presenza di una costrizione ideologica possente (altro che “libero mercato delle idee”!). Questa evoluzione/involuzione semantica appare peraltro ancor più sospetta se si considera che in ambito anglofono l’espressione mantiene ancora una certa ambivalenza: per esempio, il politologo canadese Daniel A. Bell la ritiene una valida alternativa alla decadente e ipocrita democrazia occidentale e pone il Partito Comunista Cinese come modello di “grande organizzazione meritocratica” (sic).
Le sue considerazioni riguardanti il PCC implicano che le nostre società si adeguino al ritmo cinese in tutto e per tutto, evidentemente anche nelle statistiche sulle morti per eccesso di lavoro: in Cina si contano seicentomila decessi all’anno a causa di una patologia riconosciuta come 过劳死 [guòláosǐ], che nella stampa occidentale è arrivata nella versione giapponese, karōshi (pratica che da tempo i meritocratici nostrani vorrebbero importare, persino in forma di mobbing: si legga l’ormai “storica” articolessa di Francesco Merlo, uscita casualmente sempre per il “Corriere”, Mobbing, il mal d’ufficio, l’ultima trovata della filosofia buonista del 1998).
Ancora più imbarazzante è che il Bell consigli come metodo per aumentare il grado di meritocracy nelle nostre società l’introduzione delle quote rosa… Come nel PCC, giusto? Sì… Volendo tuttavia sorvolare sui compagni cinesi, è obbligo tuttavia domandarsi come sia possibile conciliare l’aspirazione a premiare il “merito” con l’istituzione di “corsie preferenziali”. Non è che alla fine, in termini pratici, la “meritocrazia” si rivela essere la classica cooptazione condotta con mezzi nuovi, magari più adatti alla sensibilità delle classi dominanti del momento?
Dalla lotta di classe alla lotta di quote, quindi: invece di eliminare le diseguaglianze, ci si assicura il monopolio della discriminazione stessa, e poi si stabilisce chi possa “vivere al di sopra dei propri mezzi” e chi no. Quelli che restano indietro sono sia cornuti che mazziati, poiché vengono per giunta ancora considerati dei “privilegiati” in quanto facente parte di quote fintamente considerate dominanti (ma in realtà ormai subalterne) come quelle di “maschio”, “bianco”, “eterosessuale”, “occidentale”, “italiano”, “cattolico” (per farsi un’idea del livello a cui siamo giunti, segnalo la “campagna di sensibilizzazione” Check your privilege lanciata qualche anno fa dall’Università di San Francisco per i suoi studenti e poi replicata da altri istituti).
Ora, a proposito delle “ambiguità”, il ripudio delle follie meritocratiche comincia finalmente a sorgere dal “cuore dell’impero”. Colpisce in particolare un articolo di David H. Freeman per l’Atlantic (The War on Stupid People, 15 agosto 2016) che ha il coraggio di dipingere seppur a grandi linee il volto del “nemico”, il medio-progressista che considerare il suffragio universale un errore storico da “correggere” con qualche iniezione di politicamente corretto e -appunto- un pizzico di meritocrazia:
«Quelli che si butterebbero da una scogliera piuttosto che utilizzare qualche brutta parola per descrivere razza, religione, aspetto fisico o disabilità sono entusiasti però di sganciare la s-bomb, la parola con la “s” (stupido): a ben vedere, tacciare l’interlocutore di “stupidità” è diventato naturale in tutti gli ambiti in cui si discute».
Gli “stupidi” a cui si riferisce l’Autore, d’altro canto, non sono solo quelli col quoziente intellettivo basso o quelli che si bevono tutte le bugie del mainstream (che in realtà ai meritocratici aggradano particolarmente, dato che è la loro propaganda a monopolizzare l’informazione); ma semplicemente sono
«i tanti lavoratori per i quali potrebbe presto “suonare la campana”: quelli che scarrozzano persone o cose, a causa delle macchine senza autista di Google, i droni-corriere di Amazon e i camion senza conducente appena testati sulle strade; oppure quelli che lavorano nei ristoranti, grazie a robot sempre più convenienti e accessibili realizzati da aziende come la Momentum Machines e a un numero crescente di app che consentono di prenotare, ordinare e pagare senza l’aiuto di un essere umano. Soltanto questi due esempi implicano la sparizione di quindici milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti».
L’attacco fondamentale ai piedi d’argilla del paradigma politico-sociale-culturale-economico che è stato imposto all’opinione pubblica negli ultimi decenni giunge anch’esso sulla scia del malizioso recupero del significato originario della meritocracy:
«Il sociologo britannico Michael Young coniò il termine “meritocrazia” nel 1958 per una satira distopica. A quei tempi, il mondo che immaginava, in cui l’intelligenza determinava totalmente chi avrebbe fatto fortuna e chi sarebbe finito in miseria, era inteso come predatorio, patologico e inverosimile. Oggi tuttavia siamo giunti quasi a instaurare un sistema del genere, e abbiamo abbracciato con pochissime riserve l’idea di meritocrazia, considerandola persino “virtuosa”. That can’t be right. Le persone intelligenti hanno il diritto di sfruttare al meglio i loro doni: ma non gli dovrebbe essere concesso di rimodellare la società in modo da imporre il “talento” [giftedness] come criterio universale del valore di una persona».
Gli arconti del politicamente corretto impongono di non proseguire oltre il ragionamento, anche se sul banco degli imputati non dovrebbero finire solo gli “intelligenti” (soi-disant, naturalmente), ma tutti i coloro i quali anelano a creare una meritocrazia modellata sulla “categoria” alla quale appartengono (minoranza protetta, sia essa economica, politica o sessuale), pretendendo poi attraverso di essa di conseguire privilegi da poter spacciare come meriti.