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Il senso di Concita per la lotta

Nella sua rubrica per “Repubblica”, Concita De Gregorio ha pubblicato una “lettera aperta” di un anonimo trentatreenne desideroso di denunciare la mancanza del senso della lotta nei giovani italiani (Noi che non conosciamo il senso della lotta, 10 dicembre 2017).:

«Ho 33 anni e ammetto di non conoscere il senso della lotta. Non so cosa vuol dire combattere per ottenere qualcosa e non ho mai assaporato il gusto della vera conquista. Sono cresciuto in una famiglia normale, di quelle che l’Istat chiamerebbe ceto medio, e ho avuto sempre tutto ciò di cui avevo bisogno. Non capricci e cose inutili, lo stretto indispensabile […].
Si potrebbe dire che sono cresciuto in un contesto giusto e in cui le cose non mi erano dovute, me le dovevo guadagnare. Eppure non ho mai dovuto davvero conquistare qualcosa. Non sono mai stato disoccupato. Non ho mai sentito la mancanza di qualche libertà fondamentale. Sono stato fortunato, secondo alcuni.
La mia compagna, 35 anni, è straniera e lei sì che ha dovuto conquistare coi denti tante cose. Ha dovuto (ri)cominciare tutto da zero, più di una volta, in un Paese straniero. Lei sì che ha lottato. Lei lo capisce il senso della conquista.
La verità è che noi giovani italiani non lottiamo. Non sappiamo farlo. Siamo stati abituati ad avere tutto pronto. Tutto dovuto. […] Siamo una generazione, noi degli anni ’80, di seduti e pure scontenti. Per cui, va bene prendersela con il governo, con le istituzioni, con lo Stato, ma guardiamo prima in casa nostra: è “colpa” dei nostri genitori se non sappiamo neanche più lottare per ottenere qualcosa. Ed è colpa nostra se non ce ne rendiamo conto da soli da adulti.
Mio padre ha sempre detto a me e mia sorella “Imparate le lingue ed emigrate”. Non l’ho mai fatto. Un po’ per mancanza di coraggio, un po’ perché, in fin dei conti, ho sempre avuto una vita più che dignitosa, ma un po’ anche per principio. Mia sorella sì, ora vive a Londra e lì i suoi figli diventeranno adulti (Brexit permettendo). L’Italia è il mio Paese e ci rimango. È casa mia. L’Italia è temporaneamente mia di diritto.
L’Italia è fatta così perché gli italiani sono fatti così. Anche io. Anche tutti quelli che scrivono “Me ne vado perché non ci sono prospettive”. E rimaniamo così anche se ci trasferiamo in un altro posto. Siamo tutti un po’ evasori, tutti un po’ ladri, tutti un po’ incivili, tutti un po’ viziati.
Il ragionamento di fondo, però, è un altro. I nostri nonni hanno sopportato tanto, lottato moltissimo e ottenuto grandi conquiste. I nostri genitori hanno sopportato meno, lottato un po’ e ottenuto qualcosa. E noi? Noi non lottiamo. Noi scappiamo. Scappiamo quando, semplicemente, sarebbe il nostro turno di lottare»,

Ho sforbiciato qua e là alcune osservazioni dell’autore poiché, oltre a essere piuttosto patetiche, condurrebbero la polemica sul personale: al contrario, è subito necessario rilevare che questa lettera non si può realmente attribuire a una persona, nel senso che è così profondamente “anonima” che avrebbe potuto scriverla chiunque, da Aldo Cazzullo a uno di quei “parenti dei parenti” che a ogni Natale rompono per ore sulla corruzione e l’ignavia degli (altri) italiani.

Del resto, lo scritto in sé contiene talmente tante contraddizioni che non varrebbe nemmeno la pena di entrare nel merito. Ci permettiamo solo un appunto: è piuttosto ridicolo che l’estensore consigli ai “giovani” degli anni ’80 di non prendersela “con le istituzioni”, ma con… i propri genitori (cioè, in definitiva, con un’altra istituzione).

Questo, in fondo, non è che un modo come un altro per scaricare le proprie responsabilità su un feticcio, in tal caso l’italianità intesa come “virus” che si trasmette di generazione in generazione. L’anonimo compilatore quindi non si accorge nemmeno di riproporre, mutatis mutandis, il medesimo discorso dei suoi avversari: però ora non è lo Stato o il governo il bersaglio su cui proiettare i propri fallimenti personali, ma la “stirpe”, la vil razza dannata. Dal che si rende necessario trarre un’ulteriore conclusione: se la perversione degli italiani è talmente radicata da non attenuarsi nemmeno quando “si trasferiscono in un altro posto” (anzi addirittura all’estero si cristallizza in categorie al limite dell’iperuranico quali “evasori, ladri, incivili e viziati”), perché secondo costui gli italiani dovrebbero essere educati sin dalla culla al “senso della lotta”?

Chiudendo la breve digressione sui contenuti, vogliamo stendere un velo pietoso sui riferimenti alla “compagna straniera”, ça va sans dire appartenente a una razza più evoluta (ma non c’è il rischio che vivendo in Italia si sciupi anche lei?) e alla sorella espatriata a Londra (alla quale, secondo l’autore, la Brexit bloccherà lo sviluppo dei pargoli), perché appunto non ci riguardano i motivi di tanto livore (ci mettono solo tanta tristezza, ma questo è un altro problema).

Preferiamo invece considerare il documento come l’ennesima testimonianza della distopia in cui stiamo vivendo: se non fosse stata scritta da un italiano (che, come è noto, è troppo stupido per leggere più di un libro all’anno), potremmo persino ipotizzare una “trollata” da parte di un attento lettore di Michel Houellebecq, che avrebbe deciso di parafrasare la tipica lingua-di-legno delle comparse “efficientiste” di romanzi come Estensione del dominio della lotta (vedi che tutti i popoli del mondo sono più progrediti degli italiani? I francesi facevano gli stessi discorsi oltre vent’anni fa!).

Questo tipo di retorica tracima il campo del politico e dell’economico per “estendersi” a ogni livello dell’esistenza; in particolare a Houellebecq interessa sottolineare come l’ideologia della  “lotta” si manifesti anche dal punto di vista delle relazioni amorose:

«Nella nostra società il sesso rappresenta un secondo sistema di differenziazione, del tutto indipendente dal denaro; e si comporta come un sistema di differenziazione altrettanto spietato, se non di più. Tuttavia gli effetti di questi due sistemi sono strettamente equivalenti. Come il liberalismo economico incontrollato, e per ragioni analoghe, così il liberalismo sessuale produce fenomeni di depauperamento assoluto. Taluni fanno l’amore ogni giorno; altri lo fanno cinque o sei volte in tutta la vita, oppure mai. Taluni fanno l’amore con decine di donne; altri con nessuna. È ciò che viene chiamato “legge del mercato”. In un sistema economico dove il licenziamento sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare un posto. In un sistema sessuale dove l’adulterio sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare il proprio compagno di talamo. In situazione economica perfettamente liberale, c’è chi accumula fortune considerevoli; altri marciscono nella disoccupazione e nella miseria. In situazione sessuale perfettamente liberale, c’è chi ha una vita erotica varia ed eccitante; altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine. Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società»

In effetti, a pensarci bene, lo stesso discorso sul “gusto della vera conquista” potrebbe essere riproposto papale papale da una di quelle agenzie matrimoniali 4.0 sparse sul web, che generosamente propongono anche corsi di seduzione e autostima. Almeno loro, bisogna dirlo, hanno qualcosa da vendere, dunque è nel loro interesse far sentire il cliente inferiore e inappagato; ma in questo caso, cosa si nasconde dietro tali sentenze, al di là dell’irrefrenabile astio a cui abbiamo accennato (ma, ancora, non vogliamo insinuare nulla sulla vita personale dell’autore, dato che a differenza di Houellebecq pare abbia addirittura “rimediato” qualcosina)?

In conclusione, bisognerebbe chiedersi perché anche la Concita è intenzionata a premere sul thymos come unica “energia” in grado di “far ripartire l’Italia”? Cos’è questa retorica del cazzo (perdonate il francesismo) che si è impossessata del ceto medio riflessivo? È a dir poco disonesto dal punto di vista intellettuale (e non solo) insistere perennemente sull’inadeguatezza del singolo (sia essa anche etnica) escludendo per principio un’analisi sulle condizioni in cui esso si trova, a livello individuale e sociale.

Esisterà pure una via di mezzo tra il Tutta-colpa-del-sistema e il Tutta-colpa-mia; a quanto pare alcuni pensano di aver trovato la quadratura del cerchio affermando che È-tutta-colpa-degli-italiani, ma come scappatoia sembra tutt’altro che agevole. Forse (forse) avrebbe un qualche valore a livello letterario, ma allora tanto varrebbe mettersi il cuore in pace e tornare al Leopardi, che almeno sul “senso della lotta” scrisse per i posteri e non per i contemporanei:

«In più altri modi la donna è come una figura di quello che è il mondo generalmente: perché la debolezza è proprietà del maggior numero degli uomini; ed essa, verso i pochi forti o di mente o di cuore o di mano, rende le moltitudini tali, quali sogliono essere le femmine verso i maschi. Perciò quasi colle stesse arti si acquistano le donne e il genere umano: con ardire misto di dolcezza, con tollerare le ripulse, con perseverare fermamente e senza vergogna, si viene a capo, come delle donne, così dei potenti, dei ricchi, dei più degli uomini in particolare, delle nazioni e dei secoli. Come colle donne abbattere i rivali, e far solitudine dintorno a se, così nel mondo è necessario atterrare gli emuli e i compagni, e farsi via su pei loro corpi: e si abbattono questi e i rivali colle stesse armi; delle quali due sono principalissime, la calunnia e il riso. Colle donne e cogli uomini riesce sempre a nulla, o certo è malissimo fortunato, chi gli ama d’amore non finto e non tepido e chi antepone gl’interessi loro ai propri. E il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta» (Pensieri, LXXV).

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