Ringrazio l’amico Roberto Marchesini per avermi segnalato un suo intervento a una conferenza sul Sessantotto, probabilmente una delle poche degne di nota in questo desolante anniversario.
Mi ha colpito in particolare l’accenno al carattere sionista che il Sessantotto ebbe nei Paesi del Blocco sovietico est-europeo: come afferma Marchesini (a partire dal sesto minuto),
«I primi cenni del Sessantotto come lo conosciamo arrivano dalla Polonia. […] Pare che l’Europa Occidentale abbia importato il Sessantotto dalla Polonia. […] Nel 1967 c’era stata la Guerra dei sei giorni: la Russia e tutti i Paesi satelliti si erano schierati con i Paesi arabi, e qualcuno ha pensato di gettare scompiglio nei Paesi che avevano appoggiato gli arabi. Il Sessantotto in Polonia è stata una protesta dal carattere sionista, fatta da studenti che erano in realtà figli dell’intellighenzia sovietica di origine ebraica. […] La cosa si è conclusa con quella che è stata chiamata l’Aliyah Gomułka […] [per mezzo della quale] sono emigrati tra i 13.000 e i 20.000 ebrei polacchi“»
Pur non volendo impegnarci nello spazio di poche righe in una faticosa opera di revisionismo, è giusto tuttavia concentrarsi anche sulla dimensione geopolitica che ebbe tale rivolta: un dato di fatto è che essa giunse proprio quando i Paesi del Blocco sovietico ruppero le relazioni diplomatiche con Israele in seguito al conflitto del giugno 1967 (l’unica a non farlo fu la Romania, e se fossimo maliziosi noteremmo che essa fu praticamente il solo membro dell’URSS a non aver avuto sommosse importanti).
Sappiamo dei rapporti controversi tra polacchi ed ebrei: ad onta delle diverse stagioni politiche che il Paese ha affrontato, si potrebbe quasi dire che la loro relazione è la stessa del leone e della gazzella di quel celebre aneddoto pseudo-africano (…Ogni mattina a Varsavia, come sorge il sole, non importa che tu sia polacco o ebreo, l’importante è che cominci a correre…). È anche però doveroso sottolineare che le purghe anti-sioniste di Gomułka non si trasformarono mai in pogrom, sia perché il Segretario del Partito fu anch’egli un perseguitato politico nell’era staliniana, sia perché (da cattolico) aveva sposato la figlia di ebrei ortodossi (Liwa Szoken) e questo lo spinse a rimarcare incessantemente la differenza tra “antisemitismo” e “antisionismo” (ispirando anche i cartelli delle rivolte anti-sessantottine eterodirette dal governo).
La fazione invece più intenzionata ad alimentare l’equivoco fu quella guidata dal generale Mieczysław Moczar, che da Ministro degli Interni tra le altre cose “bonificò” il comitato scientifico della Grande Enciclopedia Universale polacca, reo a suo parere di aver ricostruito le vicende della Seconda Guerra Mondiale in senso prettamente giudeo-centrico, accentuando le sofferenze ebraiche ma dimenticando il martirio di tutta la nazione (questa è una polemica ricorrente: qualcuno ricorderà il dibattito odierno sui campi di concentramento “polacchi”).
Anche il movimento PAX di Bolesław Piasecki affiancò il Ministro nella promozione della campagna anti-sionista, mettendo in difficoltà Gomułka, che comunque non poteva negare l’intreccio tra protesta studentesca e rivolta pro-israeliana. Marchesini ha in effetti ragione: molti rivoltosi non erano che i figli di quella intellighenzia che i polacchi definivano Żydokomuna (“giudeo-bolscevica”), la quale aveva guidato le persecuzioni staliniste del dopoguerra suscitando un comprensibile risentimento nella popolazione (persino Wikipedia ci tiene a ricordarlo, seppur in modo eufemistico: «per complesse ragioni storiche [sic], molti ebrei detennero posizioni di autorità sotto le repressive amministrazioni comuniste polacche del dopoguerra»). D’altronde i protagonisti ebrei del Sessantotto, i discendenti degli stalinisti convertitesi dopo il 1989 al turbo-capitalismo, sono gli stessi che oggi formano l’élite tecno-progressista polacca: come a dire che nonostante le persecuzioni qualcuno “cade sempre in piedi”.
Ovviamente non vogliamo sostenere che il Sessantotto fu il solito “complotto ebraico”: epperò l’esistenza di Israele nel dopoguerra non può essere considerata ininfluente né dal punto di vista politico né, come ricordavamo, da quello geopolitico. Non a caso anche gli storici statunitensi riconoscono che la Guerra dei sei giorni fu il punto di rottura tra la comunità afroamericana e i “simpatizzanti” ebrei, un dissidio profondo che ancora oggi produce i suoi effetti (ma è solo per “correttezza politica” che non si analizza l’inquietante diffusione dell’antisemitismo tra i neri).
Ad ogni modo, nel marzo di quest’anno il presidente Duda si è scusato quasi in ginocchio di fronte ad alcune associazioni ebraiche riunite all’Università di Varsavia: «Perdonateci, perdonate la Repubblica Polacca, perdonate i polacchi, perdonate la Polonia di quell’epoca, per aver perpetrato queste azioni vergognose». Tutto bene quel che finisce bene, insomma!
Non c’è dibattito. È un fatto. Non c’erano “campi di concentramento polacchi”. La verità storica è inconfutabile.
Inoltre – “I tentativi di offuscare la responsabilità dei campi di concentramento e di sterminio concepiti e gestiti dalla Germania nazista incolpandone altre nazioni o gruppi etnici”.
Il dibattito ovviamente c’è, non fosse che qualcuno, come i media tedeschi, gioca sul fatto che i campi, trovandosi fisicamente in Polonia, debbano essere “polacchi”. Ne ho parlato qui.
Grazie, Roberto.