Il tabù dei dazi

Solitamente non parlo mai di economia, se non nel momento in cui la “scienza triste” irrompe nel campo politico, che è poi quello della vita (essendo l’uomo zoon politikon); altrimenti in genere cerco di stare zitto, perché appunto non ci capisco nulla. Un dato che tuttavia in questo momento mi pare di comprendere è che, fondamentalmente, la globalizzazione è finita: Donald Trump aveva già promesso di abbattere il muro del mondialismo in campagna elettorale, e un mese fa a Davos ha ribadito la sua intenzione. Pertanto credo che anche gli scienziati tristi debbano fare buon viso a cattivo gioco e accettare il Roma locuta proveniente dalle due economie più potenti del mondo (perché l’intero processo è partito, come al solito, dalla Perfida Albione: la Brexit sta a Trump come la Thatcher a Reagan e Churchill a Roosevelt).

Ora, una delle parole che sarà indispensabile recuperare nella controrivoluzione in atto è “dazio”: prima o poi bisognerà tornare a discuterne in modo “laico”, lasciando da parte l’isteria che attualmente contraddistingue le varie parrocchiette italiane (ed europee). È infatti necessario che, da destra o da sinistra, qualche intellettuale trovi il coraggio di restituire al concetto la dignità che merita, superando quella superstizione che attualmente ci obbliga a considerare i dazi un sinonimo di chiusura mentale, autarchia e fascismo, quando invece essi non sono che uno degli strumenti ai quali i politici possono legittimamente ricorrere nei casi in cui ne giudichino opportuna l’applicazione.

A dirla tutta, sembra che qualche spiraglio si stia in effetti aprendo anche nella soverchiante muraglia del politicamente corretto, se pochi giorni fa (17 febbraio) la Coldiretti ha stigmatizzato la politica del “dazio zero” nei confronti delle importazioni di riso da Paesi extra-europei:

«Il riso in Italia e in Emilia Romagna rischia di sparire. Lo sostiene il presidente di Coldiretti Emilia Romagna, Mauro Tonello, alla luce degli ordinativi del seme di riso per la campagna 2018 che attualmente si sono fermati al 30% rispetto allo scorso anno, rischiando di far sparire i benefici dell’etichettatura d’origine obbligatoria del riso entrata in vigore il 14 febbraio scorso. Tra le cause – secondo Tonello – c’è l’intenzione della Commissione Ue di aumentare le importazioni di varietà di riso Basmati a dazio zero dal India e Pakistan, i due maggiori esportatori di riso in Italia, che a sua volta è il primo produttore in Europa.
[…] La situazione è drammatica – secondo il presidente di Coldiretti Emilia Romagna – al punto che il consiglio che si può dare ad un risicoltore è di abbandonare il settore a meno che non sia inserito all’interno di veri contratti di filiera che la Coldiretti sta promuovendo presso il propri associati».

La questione andrebbe poi estesa a un altro punto dolente, quello delle delocalizzazioni. In Italia ormai assistiamo a un effetto valanga, tanto che diventa superfluo accennare al caso del giorno, in quanto perfetta riproduzione di quello precedente (e di quell’altro ancora…). Forse sarebbe più interessante soffermarsi sulla nuovissima “strategia” che un inutile ministro sta abbozzando proprio in queste ore, ovvero quella di individuare qualche provvidenziale cavillo nella legislazione del Paese in cui l’azienda verrà trasferita, per poi sottoporlo a un altrettanto inutile commissaria europea (che comunque darà sempre torto all’Italia). Ci piacerebbe discutere dell’ingegnosa trovata, ma non siamo esperti di psichiatria… A parte gli scherzi, quello che è davvero irritante in tale “mossa” è il sottile cambio di paradigma che implica: se fino a poco fa si faceva finta di puntare il dito contro le “multinazionali cattive”, adesso si passa direttamente alla colpevolizzazione degli altri membri dell’Ue, con i quali in teoria dovremmo collaborare.

(En passant, sembra che l’andazzo l’abbia sia stato inaugurato Macron con le polemicucce contro la Polonia sul cosiddetto “dumping sociale”, soltanto un pretesto per far sentire Varsavia accerchiata da Parigi sul lavoro, da Bruxelles sulla giustizia, da Berlino sull’economia e da Roma sugli immigrati… per fortuna che Washington le ha confermato di sbattersene).

Proprio in contrasto con quest’ultima tendenza “europeista”, per non mancare di rispetto a nessuno utilizzeremo come esempio di Paese “beneficiato” dall’offshoring la nazione immaginaria di Dampinghia, la cui valuta indicheremo in “bottoni”. Dopo le precisazioni, veniamo subito al punto: se un lavoratore italiano guadagna, mettiamo, 1200 bottoni al mese, come si può impedire alla multinazionale di delocalizzare in Dampinghia dove lo stipendio medio è di 300 bottoni? Le soluzioni de destra e de sinistra sono sintetizzabili in due parole: il politico liberale/liberista (o come volete) dice che l’Italia dovrebbe “sprecare” meno soldi in sanità, pensioni e istruzione per offrire qualche vitello d’oro alle multinazionali che ci fanno l’onore di restare nel nostro Paese (l’ho fatta breve, ma questa è la sostanza). Una posizione assolutamente legittima, sia chiaro, ma ci si domanda come nella testa del liberista “compassionevole” sia possibile colmare il gap tra 1200 e 300 bottoni semplicemente “abbassando il costo del lavoro”: che facciamo, obblighiamo lo Stato a sparire da tutti i settori per poi statalizzare indirettamente solo quello industriale?

Passando alla posizione de sinistra, è anch’essa riassumibile in un paio di righe: la soluzione per costoro sarebbe quella di favorire il sindacalismo tra gli operai della Dampinghia in modo che laggiù gli stipendi passino da 300 a 1201 bottoni e la voglia di trasloco delle multinazionali ne risulti così frustrata. Una delle difficoltà che comporta tale ideuzza è che, come limiti di tempo, il sindacalista (pure lui “compassionevole”) si pone un lasso che va dal secolo al millennio, il che già dice molto sulla concretezza della proposta; ma c’è un aspetto ancora più ridicolo, ed è quello di non rendersi conto che, in un mondo globalizzato, a una multinazionale conviene sempre delocalizzare.

Sì, è un concetto talmente semplice che è quasi imbarazzante formularlo: se una corporation ha la possibilità di spostarsi dall’Italia alla Dampinghia anche solo per risparmiare un bottone a operaio… beh, che cosa dovrebbe impedirle di farlo (per tornare alla domanda iniziale)? I piagnistei di qualche ministrucolo o dei riciclati di turno lasciano il tempo che trovano, a meno che a qualcuno di loro non sovvenga precisamente la parola magica: dazio

D’altronde se esistesse un modo più efficace e immediato per frenare la deindustrializzazione, che non quello di imporre tariffe a chi vuole reimportare i prodotti (ché mica può venderli ai dampinghesi coi loro stipendi da fame!), gli americani lo avrebbero già utilizzato: purtroppo il mondo vuole così, e più la globalizzazione “morde”, più s’impongono alternative nette, senza ulteriore possibilità di fraintendimento. Chi crede alle favole di destra o sinistra, dovrà subito prepararsi all’eventualità di perdere il lavoro da un giorno all’altro, perché l’abbattimento del costo del lavoro in Italia e le lotte sindacali a Dampinghia non serviranno comunque a colmare la differenza di un bottone tra uno stipendio e l’altro (è solo una metafora, ma forse utile a far capire che nel mondo globalizzato la vostra vita vale meno di un bottone).

4 thoughts on “Il tabù dei dazi

    1. È una lezione di politica, non di economia, come dimostra il fatto che già stiamo assistendo a miracolose conversioni fra i liberisti alle vongole o all’amatriciana (e tante ancora ne vedremo).

  1. c’è un errore nel testo: nel penultimo paragrafo dovrebbe essere “da 300 a 1199 bottoni”;
    per il resto, ottima analisi

    1. Ti ringrazio; in realtà non è un errore, perché quello che sto dicendo è che se appunto lo stipendio del Paese “degli stipendi bassi” aumentasse di un solo “bottone” rispetto all’Italia, le multinazionali rimarrebbero nel nostro Paese, proprio perché nel mercato libero e globalizzato il loro interesse è risparmiare anche un solo “bottone”.

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