La prima volta che vidi 2001: Odissea nello spazio fui talmente entusiasta di averne afferrato immediatamente il senso, che non gli concessi mai una seconda visione (al contrario, ho impiegato davvero troppo tempo –per una persona normale, intendo– a capire perché sul pianeta delle scimmie c’era una Statua della Libertà col volto umano…).
Ancora oggi sono restio a riguardarlo per non sminuire quel misero trionfo: lo stesso Kubrick, d’altronde, tende a darmi ragione, non solo perché consigliò «una visione immediata, viscerale, che non dovrebbe implicare ulteriore approfondimenti», ma anche perché le sue convinzioni politiche e religiose (come recita il titolo di una straordinaria pagina di Wikipedia) confermano implicitamente la mia interpretazione, che in realtà si potrebbe riassumere in poche parole: il transumanesimo è una forma di umanesimo (corollario: l’oltreuomo resta sempre un uomo).
Pur conoscendo poco o nulla delle convinzioni religiose di Kubrick (che si è sempre nascosto dietro un sobrio ateismo), sappiamo tuttavia che qualsiasi cosa provasse l’esistenza di una vita dopo la morte fosse per lui motivo di ottimismo (per questo affermò di considerare Shining una storia positiva). La sequenza conclusiva di 2001, con la morte e rinascita di Bowman, da questo punto di vista rappresenta anch’essa un “lieto fine”, poiché la tecnologia sopperisce a ciò che Kubrick, se fosse stato cattolico, avrebbero considerato appannaggio di Dio, ovvero la risurrezione della carne.
«Le persone chiamano “dio” ciò che non capiscono nel mio film», afferma ancora Kubrick. A dirla tutta, c’è anche chi, come Giuseppe Rausa, preferisce chiamarlo “diavolo”:
«Tra le molte possibili interpretazioni di 2001 c’è anche quella satanica: il nero monolito come segno del potere demoniaco; la storia umana determinata da poteri sconosciuti; l’individuo come marionetta destinata a evolversi nel fango e nel sangue, attraverso la guerra degli uomini contro gli uomini».
Questa lettura, per quanto affascinante, non mi convince del tutto, anche perché il fatto che alcuni satanisti americani indicano 2001 come il film che ha meglio raccontato «la storia umana come prodotto dell’intelligenza generata nell’uomo dalla scintilla di Dio-Satana», francamente rappresenta soltanto un loro problema (evidentemente non l’unico).
Tenderei a lasciar da parte belzebù e a vedere quel monolito semplicemente come il simbolo più efficace per rappresentare lo stupore dell’essere umano di fronte ai “prodigi della tecnica”: il colore nero indica il mistero, invece la forma ne indica la misurabilità (cioè che esiste una possibilità di risolvere l’enigma).
Escluderei altresì la presenza di famigerate “intelligenze aliene”, nonostante vengano chiamate in causa dallo stesso romanzo di Arthur C. Clarke che ha ispirato il film. È sempre Kubrick, in verità, a provvedere a una esegesi “razionalistica” della storia:
«2001 mostra che quello che alcune persone chiamano “dio” è solamente un termine adeguato per nascondere la propria ignoranza. Quello che non capiscono, lo chiamano “dio”… Tutto ciò che sappiamo dell’universo rivela che non c’è nessun “dio”. […] Questo film rigetta la nozione dell’esistenza divina, come si fa a non capire?».
Una volta messo da parte “dio”, resta da risolvere il problema “uomo”: è questo intendimento che trasforma 2001 in una rappresentazione plastica del famoso motto di Voltaire: Si Dieu n’existait pas, il faudrait l’inventer.
Trasferire l’onnipotenza divina agli alieni o alla stessa umanità (proiettata nel futuro), per Kubrick conta poco: l’importante è che gli esseri umani sopravvivano a se stessi, anche in forma di «macchine immortali […] emerse dalla crisalide della materia e trasformate in esseri di pura energia e spirito» (intervista a “Playboy”).
I “superiori incogniti”, quelli che possiedono le intelligenze o i mezzi più potenti, sono comunque esseri di questo mondo; anche la supremazia di HAL 9000 non è che apparente: l’uomo può sempre prevalere su ciò che lui stesso ha creato, al di là di tutte le paranoie sulla tecnica.
Qualche rilievo in più meriterebbe forse il “delizio ambientino” in cui Bowman “rinasce”, la cosmic hotel suite di stile neoclassico («lo stile dell’immortalità, lo stile del monumento che dice di essere monumento», cit.). È questo forse un dettaglio disturbante, poiché sembra comunicarci che una volta superato il cosidetto “transumanesimo” (cioè quando l’uomo si sbarazza della macchina antropomorfizzata, rivelatasi un supporto inaffidabile), ecco che egli finisce per rifugiarsi in un umanesimo di maniera.
Per affrontare un’immortalità posticcia, un surrogato dell’eternità, credo sarebbero necessari ambienti meno “letterari” e più accoglienti; magari qualcosa di assomigliante allo studiolo di Francesco I a Palazzo Vecchio o ai dipinti di Franco Magnani analizzati da Oliver Sacks in Un antropologo su Marte, nei quali l’artista proietta Pontito, il suo paesello d’infanzia, «nell’eternità per lo spazio infinito». Solo in tal caso una pseudo-eternità di morti e di rinascite sarebbe accettabile (anche se per chi vive in condominio il bilocale settecentesco va più che bene).