Il turismo come forma di guerra di non convenzionale

La nostra fazione porta avanti da anni una logorante e anacronistica polemica contro il turismo, vuoi per ideologia, noia o semplice mancanza di figa. Ormai abbiamo sposato questa linea e nulla ci convincerà del contrario, tuttavia dobbiamo umilmente riconoscere che anche il turismo, specialmente quello di massa, avrà pur qualche elemento positivo, se riesce a far indignare alcuni coscienziosi intellettuali progressisti, come il professor Corrado Del Bò che ha da poco pubblicato Etica del turismo (Carocci, 2017).


Il volume è in sé insignificante e dunque non mi dilungherò sui “principi rivoluzionari” introdotti dal Codice Mondiale di Etica del Turismo, il solito protocollo stilato da qualche agenzia mondialista che, dopo aver decretato che “il turismo è un diritto umano” considera tutti i problemi risolti come quel famoso meme ispirato a Sailor Moon (My Job Here Is Done…). Voglio solo citare quei passaggi e del Codice e del libro il cui moralismo impertinente mi costringe a rivalutare il turismo perlomeno come forma di guerra di non convenzionale.

Partiamo dai primi due punti dell’Articolo I del Codice (disponibile qui):

1. La comprensione e la promozione dei valori etici comuni all’umanità, in uno spirito di tolleranza e rispetto delle diversità di credo religioso, filosofico e morale, rappresentano il fondamento e la conseguenza di un turismo responsabile; gli attori del settore turistico e i turisti stessi rispetteranno le tradizioni e le pratiche sociali e culturali di tutti i popoli, comprese quelle delle minoranze e delle popolazioni autoctone, e ne riconosceranno il valore.

2. Le attività turistiche saranno condotte in armonia con le specificità e le tradizioni delle regioni e dei Paesi di accoglienza e nel rispetto delle loro leggi, nonché dei loro usi e costumi.

Alla luce dell’entusiasmante preambolo (a commento del quale ho scarabocchiato in margine giudizi non riferibili in questa sede), affrontiamo l’Articolo II, che addirittura trasforma il “turismo responsabile” in un “fattore insostituibile di autoeducazione personale, di tolleranza reciproca e di apprendimento delle differenze legittime tra i popoli e le culture”. Come realizzare dunque questo migliore dei turismi possibili? Semplice:

Le politiche turistiche saranno condotte in modo tale da contribuire a migliorare il tenore di vita delle popolazioni delle regioni ospitanti e da soddisfare le loro necessità; la concezione urbanistica ed architettonica e la gestione delle stazioni turistiche e delle strutture di accoglienza saranno tese, nella misura del possibile, ad integrare il tessuto economico e sociale locale; in caso di pari capacità, la priorità dovrà essere accordata alla manodopera locale (art. 5.2).

Dunque, camerieri e bagnini indigeni dalla riviera romagnola alle Isole Sorlinghe, con uno stipendio finalmente degno di tale definizione? No, ovviamente, perché il discorso vale solo per quelli che affettuosamente potremmo definire brown people. L’industria turistica occidentale è radicalmente esclusa da tale prospettiva local: del resto da noi il business è già florido e di certo non si può costringerlo a dissanguarsi aumentando i salari degli sguatteri.

Capite quindi che se sparliamo del turismo dobbiamo però evitare in ogni modo di trovarci dalla parte di costoro. Perciò, così come il grande Carlo De Benedetti esaltava il potere distruttivo del capitalismo, allo stesso modo noi possiamo riconoscere al turismo le virtù dell’annichilimento. Quando, per esempio, il professor Del Bò, riprendendo un passaggio del volume Trofei di viaggio di Duccio Canestrini, domanda al lettore:

«Come reagiremo se frotte di turisti americani armati di telecamere affollassero le nostre cerimonia della Prima comunione o le processioni funebri nei villaggi del Veneto o della Campania?»

Noi non possiamo fare a meno di riconoscere che sarebbe una figata (e in ogni caso questi terzomondisti d’accatto non avrebbero nulla da ridire perché, come scriveva Arbasino, Noventa di Piave non è San Cristóbal de Las Casas). Essere catalogati come tribù, fossili o merce, oppure come fantasmi, al pari del Canterville Ghost di Wilde (“I reckon that if there were such a thing as a ghost in Europe, we’d have it at home in a very short time in one of our public museums, or on the road as a show”) è una delle più dolci aspirazioni per quei popoli intenzionati a passare nella post-storia.

In conclusione, dobbiamo dire “sì” al turismo nella misura in cui tale accettazione propizia l’avvento di un mondo dove non ci sarà più alcuna forma di turismo.

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