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Il virus più pericoloso è il razzismo

El virus realmente peligroso es tu racismo
(Violeta Assiego, “El Diario”, 4 febbraio 2020)

 

Il virus della xenofobia, nella sua versione “sinofoba” [chinofoba], inizia a mostrare il suo volto in Spagna. Non è necessario andare nel Sud-est asiatico per osservare come, a seguito della comparsa del coronavirus, il razzismo anti-cinese si stia diffondendo in Paesi come le Filippine, la Thailandia, l’Indonesia o il Vietnam. Concentrarsi sulla xenofobia di questi paesi asiatici fingendo di non vedere quel che sta succedendo nel nostro Paese fa parte di quella “sinofobia” [chinofobia] che imperversa in Spagna da molti anni come espressione del nostro razzismo verso la popolazione asiatica. Sì, il nostro razzismo.

Non c’è niente di più difficile per la società spagnola che ammettere di essere una società razzista. Abbiamo difficoltà a identificare chi siamo e cosa siamo. È difficile per noi ammetterlo, perché dovremmo riconoscere di relazionarci in modo prepotente e intollerante, che trattiamo altri corpi, altre culture e altri gruppi etnici in modo diverso a causa della nostra ignoranza e dei nostri pregiudizi, che ci lasciamo guidare da miti e stereotipi, spesso in maniera neanche troppo inconscia. In ogni caso, non è un problema di poco conto, se pensiamo soprattutto a coloro che subiscono tutto questo.

Un’infinità di atteggiamenti, scelte ed espressioni sono influenzate da queste credenze erronee, ma per riconoscere il proprio errore si dovrebbero mettere da parte l’egoismo e la vanità. Nella vita quotidiana il nostro razzismo discrimina, stigmatizza e rende invisibili gli appartenenti ad altri gruppi etnici o culture. C’è anche chi, nell’incoscienza del proprio razzismo (latente), rifiuta con disprezzo di considerare vittime di razzismo gli individui che si definiscono tali per mostrare lo squilibrio di potere che questo fatto genera nelle relazioni sociali e nella vita quotidiana.

“Non sono un razzista, è solo per una questione sanitaria che non voglio condividere l’ascensore con un cinese” potrebbe essere l’affermazione o il pensiero che ricorre in questi giorni nelle menti o sulle labbra di tantissime persone nel nostro Paese. E questo, come coprirsi la bocca quando si vede una persona di origine asiatica, anche se non vi piace ammetterlo, è palese razzismo. La Spagna non è esente dal virus della xenofobia, che prospera dalle nostre parti da anni. Ci sono innumerevoli esempi che dimostrano come le vite e i corpi vittime del razzismo valgono meno nelle politiche pubbliche e nelle nostre reti sociali.

Non è necessario girare l’Europa per capire come, anche in Spagna, il coronavirus stia facendo emergere il razzismo verso la comunità asiatica. L’esempio più recente si è verificato pochi giorni fa, quando a un gruppo di studenti cinesi è stato impedito di entrare in un bar di Huelva. Le scuse accampate dai proprietari del locale (comunque inaccettabili, per la legislazione vigente sul diritto di ammissione) è che sembravano minorenni o che non indossavano le scarpe adatte. La realtà è molto diversa. La decisione si basava unicamente sul pregiudizio di credere che, in quanto cinesi, i ragazzi potessero diffondere il coronavirus.

Quel locale potrebbe restare chiuso per un mese* perché nel nostro Paese, sebbene pochi ne siano al corrente, c’è una normativa che consente di combattere le discriminazioni per via amministrativa. Un percorso non punitivo ed efficace, ma ovviamente insufficiente se non accompagnato da investimenti nel sociale e nell’istruzione. È sorprendente che sia proprio in tale ambito, dove si potrebbe svolgere un ottimo lavoro di prevenzione delle discriminazioni, che il partito di estrema destra Vox vuole imporre la sua legge del silenzio e, quindi, dell’impunità, a favore degli intolleranti alle differenze, alla diversità e alle sofferenze delle minoranze.

La comparsa del coronavirus dimostra che in Spagna siamo razzisti ben più di quanto potessimo immaginare. Ora, possiamo continuare a parlare di Europa e Sud-est asiatico come se la discriminazione di laggiù non fosse la nostra, o provare a prendere sul serio la campagna #YoNoSoyUnVirus che si sta svolgendo anche nel nostro Paese. Il fatto che nella settimana della moda di Madrid, l’artista taiwanese Chenta Tsai (noto anche come Putochinomaricón) abbia sfilato con scritto sul petto “I’m not a virus” ha rappresentato una denuncia così potente che pochi media, a parte usarne l’immagine, saranno disposti a dargli voce. E nel caso lo facciano, la cosa non potrà lasciarsi indifferenti, perché è una sfida aperta ai modi sprezzanti e arroganti con cui trattiamo la comunità asiatica, giustificati solo dai pregiudizi razzisti che rifiutiamo di riconoscere.

La discriminazione nei confronti della comunità cinese e asiatica non ha raggiunto il nostro Paese a causa del coronavirus. Piuttosto, il virus le ha dato un volto, perché da anni era presente nella vita quotidiana di molte persone di origine asiatica, che hanno sopportato commenti e stereotipi  umilianti. Fomentare la disinformazione sul coronavirus significa ignorare tutto questo; fomentare l’allarmismo contro una comunità su cui aleggiano già così tanti pregiudizi, oltre a essere un comportamento irresponsabile, è un modo per diffondere un virus molto più pericoloso del coronavirus: il razzismo. E non sono frasi fatte: chiedete a Chenta Tsai

* Con i lockdown successivi, quel locale è rimasto chiuso ben più di un mese. Beccatevi questo, razzisti!

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