Il Volto dell’Altro di Lévinas è il nuovo “Occhio della Madre”

“Tutti gli esseri viventi sono nell’aperto, si mostrano e comunicano gli uni agli altri, ma solo l’uomo ha un volto, solo l’uomo fa del suo apparire e del suo comunicarsi agli altri uomini la propria esperienza fondamentale, solo l’uomo fa del volto il luogo della propria verità”.

Commenta l’ultima sortita di Giorgio Agamben (Il volto e la maschera, Quodlibet, 8 ottobre 2020), Vox clamantis in deserto contro la dittatura sanitaria, un arguto Alessio Mulas: “Dove sono oggi tutti i nipotini di Lévinas, con le loro chiacchiere sul volto dell’Altro?”.


Già, l’epifania del volto, coinvolgimento immediato nell’etico, con la quale ci hanno stracciato i cojoni per anni, dov’è finita? E dov’è il suo attuale corollario (meta)politico, l’ansia di “dare un volto alle vittime del Mediterraneo”, i Naufraghi senza volto commemorati in un volume ancora recente?

“Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, è costituito dalla mia responsabilità di fronte a un volto che mi guarda”. L’unico a ricordarsene è l’immarcescibile Bernard-Henri Lévy, che tuttavia lo fa con lo stesso stile del professor Guidobaldo Maria Riccardelli quando invita a concentrarsi sull’occhio della madre. Meglio Agamben, decisamente:

“Un paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica. In questo spazio vuoto, sottoposto in ogni istante a un controllo senza limiti, si muovono ora individui isolati gli uni dagli altri, che hanno perduto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità e possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto. A un nome senza più volto”.

Il Nostro non si degna di citare Lévinas, probabilmente per non risultare scontato: tuttavia, al di là della banalità da bigliettino dei baci perugina a cui l’hanno ridotta, la “filosofia del volto” del pensatore ebreo aveva comunque presupposti validi, a cominciare dalla concezione della fenomenologia quale “metodo”. La sua meditazione non era dunque un semplice “guardarsi in faccia per volersi bene”, ma un tentativo di stabilire una nuova base per un’etica condivisa. Da qui muove una delle sue intuizioni meno considerate, quella della “necessità” dello Stato in base all’impossibilità di porre in atto la struttura originaria del soggetto, cioè la responsabilità nei confronti dell’Altro, in cui contesto nel quale tertium datur:

“Se noi fossimo solo in due, nella storia del mondo ci si sarebbe fermati all’idea di responsabilità. Ma dal momento che siamo in tre, si pone il rapporto del problema tra il secondo e il terzo. Alla carità iniziale si aggiunge una preoccupazione di giustizia e quindi l’esigenza dello Stato, della politica. La giustizia è una carità più completa”.

Uno Stato e una Politica che, naturalmente, non devono permettersi di cancellare il Volto dell’Altro ponendo la responsabilità in contraddizione con la libertà.

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