Dall’editoriale odierno del corrispondente da Londra Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” (La piena occupazione? Nella Gran Bretagna post Brexit è un problema, 10 novembre 2018):
«La Gran Bretagna ha praticamente raggiunto la piena occupazione: i senza lavoro sono scesi al 4 per cento e si tratta di un livello considerato fisiologico per un’economia avanzata. Una buona notizia? Fino a un certo punto: perché in realtà molte industrie ora stanno facendo fatica a trovare dipendenti e questo spinge verso l’alto i salari, intaccando i profitti delle aziende. Un meccanismo perverso, che rischia solo di essere esacerbato dalla Brexit: con l’uscita dalla Ue Londra metterà fine alla libera circolazione e dunque verrà prosciugato quel bacino di lavoratori europei che è vitale per il funzionamento di molte attività britanniche. […] Con la Brexit che alzerà una barriera verso questo tipo di immigrati, poco qualificati, bar e ristoranti rischiano semplicemente di chiudere. Storia simile nel settore delle costruzioni, che già adesso arranca e si affida ai manovali polacchi e romeni: via questi, chi tirerà più su le case degli inglesi? […]».
È risaputo che i “corrispondenti”, indipendentemente dal Paese in cui “esercitano”, copiano tutti dalla stampa anglosassone: in tal caso tuttavia si ha difficoltà a comprendere dove il non-player character di turno abbia trovato ispirazione per tali imbarazzanti sparate. Né il “Guardian” né il “Financial Times” si azzarderebbero mai a pubblicare roba del genere: anzi, una delle regole non scritte per le redazioni è proprio di non usare mai le espressioni “salari” e “immigrazione” nella stessa frase.
Perché presentare la realtà delle cose in maniera così brutale, diretta e anche ingenua (per non dir di peggio: “I profitti delle aziende! Perché nessuno pensa ai profitti delle aziende?”) è il miglior modo per mandare tutto in vacca, cioè per far crollare il castello di carte eretto sui pilastri del sentimentalismo e della propaganda, rilanciando da una parte foto di bambini annegati e “allarmi” di vario tipo (razzismo xenofobia fascismo antieuropeismo), dall’altra recitando le orazioni per gli “sconfitti della globalizzazione” (che però hanno perso per colpa loro) e maledicendo i “vecchi che votano Brexit”.
Alla fine, era davvero solo una questione di profitto. Ecco dunque il “meccanismo perverso” che alta finanza, sinistra progressista e grande stampa volevano evitare: impedire l’apporto continuo di manodopera a basso costo. Al contrario, il “circolo virtuoso” che li faceva godere era quello generato da una massa di immigrati che, oltre a fungere da inconsapevole carne da cannone nella guerra tra capitale e lavoro, rappresentava per i politici sulla breve distanza un discreto sostegno alla domanda interna e sulla lunga una potenziale base elettorale.
Nel quadro generale rientra chiaramente anche la retorica dei “lavori che gli autoctoni non vogliono più fare”: la questione in primis è ancora economica, non morale né fisica o addirittura “genetica”. Eppure quanto ancora serpeggia l’idea che la “giusta mercede” sia una pretesa da bambini viziati, il capriccio di una stirpe ormai irrimediabilmente corrotta dalla “vita comoda”?
A quanto pare, in un intricato gioco di interessi e suggestioni, la salvaguardia dei profitti delle aziende ha indirettamente ispirato pure l’eugenetica inversa dei terzomondisti, inclusi i lacrimevoli corollari sugli “africani forti, giovani, temerari“. A questo punto per costoro non vale più nemmeno la scusa della buonafede o la vecchia storia degli “utili idioti”: se non ancora capito è perché evidentemente non sono in grado di farlo, e di conseguenza basterà lasciarli parlare affinché tutti i nodi vengano al pettine.