Immigrazione e lavoro: tutto quello che non si poteva dire

Un attimo dopo la “svolta minnitiana” che, in vista dell’imminente campagna elettorale, ha contribuito a una (momentanea) diminuzione dei flussi migratori verso il nostro Paese, la grande stampa ha ripreso a discutere di immigrazione con toni meno idilliaci e sentimentali, riprendendo tematiche che negli ultimi anni era stata forse “incoraggiata” a trascurare. Un esempio su tutti il “Corriere”, che tramite una “inchiesta” a tutta pagina ha voluto informarci che

«i nostri [migranti] sono sempre meno qualificati, meno istruiti e meno produttivi, mentre nel resto dell’Unione europea è in corso una trasformazione in direzione opposta. L’Italia in effetti spicca perché registra la più alta quota di stranieri con al massimo la licenzia media (e spesso molto meno di quella): queste persone compongono il 47% della popolazione residente nata all’estero, mentre in Francia e Germania sono un terzo» (F. Fubini, La verità dei numeri. In Italia i migranti con meno istruzione, 23 luglio 2017).

Al di là di buonismi e cattivismi, la questione centrale è proprio la “qualità” dell’immigrazione, un tema che fino a poco tempo fa veniva affrontato esclusivamente a partire dalla poca attrattiva suscitata dal nostro Paese verso gli stranieri laureati (ma dopo anni di sbarchi ininterrotti, dal liceo siamo ritornati direttamente alle medie).

È un problema che, a dire il vero, non si nascondono nemmeno testate orientate a sinistra come “Pagina 99” (Le verità scomode su migranti e lavoro, 22 ottobre 2016):

«I risultati di una ricerca sull’immigrazione del Cer (Centro Europa Ricerche) contraddicono un assunto che la sinistra europea ha trasformato in un mantra: il fatto che gli immigrati non entrino in competizione con i lavoratori locali. […] I migranti che premono sul mercato del lavoro [italiano] in alcuni casi vanno a occupare posti che potrebbero essere appannaggio della manodopera nazionale».

In particolare, la configurazione del nostro mercato del lavoro influirebbe negativamente sulla qualità della manodopera:

«[Nel 2007] l’Italia registra uno strabiliante record a livello continentale: il tasso di occupazione tra gli immigrati adulti risulta di nove punti superiore a quello degli italiani. […] In nessun Paese d’Europa, nel 2007, c’è una differenza simile tra il tasso di attività dei migranti e quello dei nativi. In Paesi come la Svezia, l’Olanda, la Finlandia, la Francia e la Danimarca, il tasso di occupazione dei locali è 10–17 punti più alto di quello degli immigrati. […] Mentre nei Paesi [europei] ad alta scolarità gli immigrati i basso livello culturale occupano posti di lavoro che i cittadini non vogliono più fare, nel Sud entrano direttamente in competizione con i locali. Non è un caso quindi se i cittadini del Sud Europa vedono negli immigrati degli avversari in competizione per gli stessi impieghi».

In verità, sempre “da sinistra”, già dieci anni fa Badiale e Bontempelli avevano espresso giudizi pressoché definitivi sull’argomento, nel libello La sinistra rivelata (Massari, Bolsena, 2007, pp. 60-61):

«I laudatori dell’immigrazione mettono in rilievo come gli immigrati, andando a fare lavori sfibranti e sottopagati per i quali non di trovano più i nativi disponibili, svolgendo servizi di cura a vecchi e malati ai quali nessun altro potrebbe provvedere, colmando le carenze di manodopera in certe mansioni industriali, e pagando contributi che altrimenti mancherebbero azioni pensionistiche, siano, ancora più che utili per l’economia nazionale, indispensabili a salvarla dal collasso.
Questo argomento, che sembra a prima vista la più incontrovertibile dimostrazione della positività dell’immigrazione, si rivela invece, a uno sguardo più profondo, la prova di un suo aspetto negativo. Ciò che l’immigrazione salva, infatti, è, proprio stando a quel che l’argomento mostra, il meccanismo attualmente vigente dell’economia, socialmente rovinoso e in prospettiva addirittura catastrofico, che andrebbe invece interrotto e ridefinito, pur con tutte le difficoltà, le tensioni e le sfide che il suo superamento comporterebbe.
Se non si trovassero neppure gli immigrati per i lavori generalmente rifiutati, tali lavori dovrebbero per forza venire resi meno umilianti, meno nocivi, meno sottopagati, e sarebbe introdotto un benefico fattore di crisi in un sistema basato su forme di brutale sfruttamento per la parte più debole della classe lavoratrice. Se non si trovassero badanti extracomunitarie, emergerebbe l’insostenibilità di un modello sociale che contemporaneamente toglie tempo agli individui che non possono più aver cura dei congiunti e annulla tutte le forme di impegno pubblico nei servizi di cura delle persone.
La ferocia capitalistica sarebbe più debole se non potesse più disporre dell’attuale sovrabbondanza di manodopera».

Per spezzare questo circolo vizioso, gli autori propongono una soluzione in linea con la loro sensibilità politica: la cancellazione del “reato di clandestinità” in qualsiasi forma esso sia configurato, precisando tuttavia che tale iniziativa dovrebbe sempre essere accompagnata da un analogo impegno nell’impedire l’offerta di un lavoro senza diritti (anche allo scopo di scongiurare una volta per tutte il “ricatto delle sanatorie” con cui «una quota di lavoratori, quelli immigrati, si ritrova alla completa mercé dei padroni»).

Teoricamente, il discorso fila: eliminando i “lavori che nessuno vuol più fare”, appunto nessuno vorrà più farli, e non ci sarà ancora bisogno di relegare gli stranieri nel limbo (che poi è un inferno) del precariato, della clandestinità e dello sfruttamento. È però necessario osservare che finora nessun partito di sinistra, moderato o meno, ha voluto approcciare la questione secondo tale impostazione: anche oggi, assistendo all’imbarazzante diatriba sullo ius soli, ci si rende conto di come gli “immigrazionisti” preferiscano sempre la “via larga” della soluzione facile, spendibile verso il proprio elettorato, rispetto a quella “stretta” della ricerca di un punto di equilibrio tra diritti e doveri (non a caso gli esponenti dell’attuale governo continuano a proporre la riforma della legge sulla cittadinanza come un qualcosa di per sé “criminofugo”, quasi la panacea di tutti i mali, dal terrorismo alla microcriminalità).

Bene, alla fine quel che si doveva dire, in un modo o nell’altro, è stato detto, anche dalla grande stampa. Resta a mio parere un’altra “quisquilia” che prima o poi salterà fuori (sempre al momento opportuno per chi governa), ovvero il rapporto fra tecnologia, lavoro e immigrazione. Qualcuno si sarà reso conto che in questi anni sono stati lanciati due messaggi antitetici: da una parte ci è stato detto che gli immigrati fanno i lavori che non vogliamo più fare, e dall’altra che i robot faranno tutti i lavori (anche quelli che gli immigrati vogliono fare).

Approfittando della “tregua” che ha permesso di smentire la storiella dei lavori che non vogliamo fare (dettata, come detto, dall’opportunismo più che dal buon senso), credo sia utile spendere due parole anche sulla bufala dei “robot ruba-lavoro”. In realtà per far ciò basterebbe pubblicare un’immagine di Donald Trump trionfante, poiché è proprio sconfessando le favole sullo sviluppo tecnologico come causa del declino della produttività e della forza lavoro immigrata come unica salvezza per l’industria nazionale, che il candidato repubblicano è riuscito a imporsi sui propri avversari.

Le questioni, infatti, sono collegate, poiché se è vero che la produttività americana ha subito un rallentamento a causa della cornucopia dell’immigrazione, per farla ripartire si rende allora necessario impedire che la manodopera non qualificata invada ininterrottamente il mercato: come sostiene il ricercatore indipendente Mark Krikorian nel volume The New Case Against Immigration, l’importazione illimitata di forza lavoro a lungo andare si rivela un surrogato dello sviluppo tecnologico, inducendo le industrie a obbedire a una sorta di “luddismo involontario” (che in futuro potrebbe compromettere la loro competitività nei confronti di quelle che hanno rifiutato tale approccio).

Il modo più indicato per evitare che le contraddizioni imposte dalla rivoluzione tecnologica esplodano è quindi quello di agevolare la scomparsa dei “lavori che nessuno vuol più fare”, sostenendo il passaggio all’automatizzazione e alla meccanizzazione con la riduzione del bacino di manodopera non qualificata agli “autoctoni”.

Soltanto così sarà possibile raggiungere la vera “stabilità” (non del tipo di quella promessa dai tecnocrati): non è utopia, poiché al di là del caso classico del Giappone (che preferisce appunto costruire “braccia” invece che importarle), questo capovolgimento di paradigma si sta già verificando nelle due più importanti democrazie del mondo, Stati Uniti e Inghilterra.

Per concludere su questo punto: mentre nei Paesi succitati la rivoluzione tecnologica, specialmente in settori come quello agricolo, manifatturiero o edilizio, verrà attutita e orientata da provvedimenti lungimiranti in materia di immigrazione, invece nel nostro, qualora l’andazzo attuale si consolidasse, essa non solo passerebbe come una meteora, ma diverrebbe l’ennesimo spauracchio propagandistico per riportarci a una metaforica età della pietra (che, a differenza di quella reale, non offrirebbe alcuna possibilità di evoluzione).

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