Immigrazione: Israele non fa entrare nemmeno una filippina

In Italia o in Occidente, se un politico accennasse alla possibilità di rimpatriare un solo immigrato subsahariano che si è macchiato di qualche orrendo crimine, le comunità ebraiche insorgerebbero immediatamente, inviando i propri emissari ad alzare le barricate.

In Israele, invece, è assolutamente normale discutere ogni giorno che Jahvè manda in terra di piani di espulsione o deportazione di massa di immigrati, e per giunta (cosa che probabilmente manderà in brodo di giuggiole gli israeliti della diaspora) senza alcun alibi riguardante la criminalità o la sicurezza, ma solo e solamente per questioni etniche, cioè allo scopo -dichiarato- di “diminuire la popolazione non ebraica”.

Non è un caso che la comunità perennemente nel mirino dei vari governi israeliani da almeno trent’anni sia quella dei filippini, che seppur non rappresentino in alcun modo un pericolo a livello sociale (fanno gli spazzini o le badanti, i loro figli vanno a scuola dai preti, il loro unico divertimento è andare a messa il sabato sera), esprimono loro malgrado la porzione più grande di lavoratori stranieri presenti nello Stato ebraico (dai 30.000 ai 40.000 su un totale di circa 300.000).

Un caso che ha fatto molto discutere (ma in Italia ne ha parlato solo il cattolico AsiaNews) è l’espulsione avvenuta nel 2019 di una donna filippina, Rosemarie Perez, e di suo figlio tredicenne Rohan (nato e cresciuto in Israele), in seguito alla scadenza del permesso di soggiorno. I due sono stati caricati a forza su un volo per Bangkok, e poi da lì si son dovuti pagare il viaggio verso Manila. Nel precedente tentativo di imbarcarli, la signora aveva inscenato una protesta, cosa che ha portato le autorità israeliane a farla scortare per tutto il tragitto verso la Thailandia da una guardia di sicurezza (non siamo in Svezia o in Germania, che diamine!).

Intervistato da AsiaNews, mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, vescovo ausiliare e vicario patriarcale di Gerusalemme, ha parlato apertamente di una politica che mira a “diminuire la popolazione non ebraica”, addirittura affermando che se Israele non ha ancora cacciato i sacerdoti cattolici goyim è solo perché essi non fanno figli e dunque non rappresentano un pericolo per la razza

Rosemarie Perez era arrivata in Israele nel 2000 in qualità di badante. Dopo la morte dell’anziano da lei assistito, aveva deciso di restare come lavoratrice illegale, anche perché il marito, di origini turche, era tornato nel proprio Paese abbandonandoli: ognuno può giudicarla come vuole (io la penso come i suoi famigliari nelle Filippine, che l’hanno diseredata), ma è obiettivo che un “caso pietoso” del genere in Occidente (persino in Svizzera!) avrebbe portato all’esito opposto.

A promuovere la campagna di arresti ed espulsioni nel Paese provvede l’Autorità israeliana per l’immigrazione e la popolazione, parte del Ministero degli Interni, che vorrebbe favorire un’immigrazione etnocentrica. D’altro canto, la legge israeliana prevede che lavoratrice straniera incinta per ottenere il rinnovo del visto “spedisca” il figlio nel Paese di origine una volta nato! Cosa accadrebbe se un politico europeo si azzardasse anche solo a pensare a una cosa del genere? Chi risponde è colpevole di antisemitismo.

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