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Impedire agli africani di vendere elefanti ai cinesi è razzista?

Why SHOULDN’T we sell our elephants to China? Defiant African nations defend controversial trade and say it’s ‘racist’ for the West to lecture them about conservation
(Daily Mail, 14 agosto 2019)

 

Un elefantino rinchiuso in una gabbia da cui cerca di fuggire sta per essere tradotto dalle terre selvagge dell’Africa in uno zoo dall’altra parte del mondo. L’animale, di cinque anni, appena sottratto con la forza dalla madre, viene preso a calci in testa da uno dei suoi “rapitori” e percosso con un bastone mentre viene legato. Intontito dai tranquillanti per renderlo docile, la sua lotta per la libertà è senza speranza.

La scena angosciante, ripresa poco più di un anno fa nel Parco nazionale di Hwange, nello Zimbabwe, è diventata il simbolo di un controverso dibattito sugli animali africani. La questione è se il continente dovrebbe essere libero di vendere la propria fauna selvatica oppure piegarsi agli ambientalisti occidentali, alle celebrità e alla famiglia reale britannica che pretendono che gli elefanti restino nelle terre di provenienza, accuditi e protetti.

La prossima settimana, il tema della vendita di elefanti selvatici e il commercio -ancor più controverso- delle loro zanne, verranno affrontate dal convegno della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES) in Svizzera. Questa organizzazione stabilisce le regole mondiali per la compravendita di animali selvatici e il povero Zimbabwe, che i funzionari dell’ONU hanno dichiarato la scorsa settimana “in marcia verso la fame”, sarà ansioso di ascoltare quel che verrà affermato al convegno.

Negli ultimi anni, lo Zimbabwe ha guadagnato 2,2 milioni di sterline dalla vendita di 97 elefanti -tra cui quello di cui sopra- a zoo, parchi e altre strutture turistiche in Cina e a Dubai. E nuovi affari si preparano a essere conclusi, dato che lo Zimbabwe ha annunciato di esser disposto a “vendere le sue bestie a chiunque”. Con un prezzo di circa 34.000 sterline per esemplare, tale commercio ha garantito notevoli entrate a un Paese in cui un terzo della popolazione vive di sussistenza, la siccità è perenne e l’inflazione è la seconda più alta al mondo dopo il Venezuela.

Non c’è da stupirsi che Fulton Mangwanya, direttore dell’Autorità per la gestione dei parchi e della fauna selvatica dello Zimbabwe, abbia dichiarato: “Stiamo lottando con le unghie e coi denti per il diritto di commerciare la nostra fauna selvatica. Il principale problema sono gli elefanti, sui quali sembra non possiamo rivendicare pieno diritto”. Tinashe Farawo, portavoce della stessa organizzazione, ha aggiunto: “Dobbiamo fronteggiare con un numero incredibile di elefanti. Ne abbiamo 84.000, ma i nostri parchi possono accoglierne solo 50.000. Quindi vendiamo quelli in eccesso per prenderci cura dei restanti”. Egli sostiene che il numero di elefanti sia fuori controllo: 200 persone sono morte per attacchi negli ultimi cinque anni e 17 milioni di acri di colture sono stati devastati dalle bestie. ‘Stiamo vendendo per gestirli meglio”, ha dichiarato. “Dobbiamo salvare le persone dagli elefanti”.

Le rivendicazioni dello Zimbabwe sono le stesse delle autorità del vicino Botswana, che ha 130.000 elefanti (la più grande popolazione al mondo e un terzo del totale dell’Africa), il quale ha appena revocato il divieto di caccia per gestire la crescente popolazione e salvaguardare la vita dei propri cittadini. Il presidente Mokgweetsi Masisi ha protestato con veemenza:

“È una questione di buon senso, è una cosa che farebbe qualsiasi britannico se ci fossero migliaia di elefanti nel Regno Unito. Le critiche sono razziste. Gli ambientalisti occidentali parlano come se qui non ci fossero esseri umani, come se l’Africa fosse solo un grande zoo e gli occidentali i custodi di questo zoo. Dobbiamo proteggere le persone e le proprietà. Siamo uno stato sovrano e non dobbiamo lasciarci sopraffare dai Paesi occidentali, che parlano come se gli elefanti fossero l’unica cosa importante. Non possiamo continuare a essere spettatori mentre altri prendono decisioni sui nostri elefanti”.

Anche il presidente della Namibia, Hage Geingob, ha condannato le ingerenze occidentali, ricordando alle lobby ambientaliste provenienti dall’Europa o dagli Stati Uniti di non avere alcun diritto di far la lezione agli africani, avendo sterminato i loro elefanti da tempo.

Questo crescente antagonismo in Africa nei confronti dell’influenza occidentale nella gestione fauna selvatica si presenterà anche al vertice CITES, quando lo Zimbabwe, il Botswana e la Namibia, che ospitano il 60% degli elefanti africani, alzeranno la voce, rivendicando anche il diritto di vendere le enormi scorte di avorio risultanti dalla morte naturale degli animali. Lo Zimbabwe stima che ciò potrebbe fruttare circa 300 milioni di sterline da spendere nei prossimi 20 anni per la gestione dei dieci parchi naturali nazionali del Paese e aiutare le persone minacciate dagli elefanti. Il paese discuterà anche contro eventuali nuove restrizioni CITES sulle sue vendite di elefanti selvatici.

Le vendite di avorio da parte delle nazioni africane sono un argomento controverso. Quaranta anni fa, c’erano un milione di elefanti in Africa, ma i numeri sono ora scesi a poco più di 400.000. Negli anni ’80 i bracconieri massacrarono metà della popolazione del continente, per vendere l’avorio agli affamati mercati asiatici, in particolare quello cinese. La Cina è stata per secoli il più grande consumatore mondiale di avorio: ogni cittadino cinese aveva tradizionalmente un sigillo d’avorio per stampare il proprio nome, in ogni casa c’erano bacchette d’avorio e innumerevoli negozi di articoli da regalo vendevano statuette e gioielli in avorio.

Al culmine di questa crisi, nel 1989, la CITES ha concordato una moratoria sulle vendite internazionali di avorio, ponendo fine al commercio legale di zanne. Sebbene la Cina l’anno scorso abbia ceduto alle pressioni internazionali e abbia vietato il commercio interno di quello che gli africani chiamano “oro bianco”, le vecchie abitudini sono dure a morire. Hong Kong ha promesso di seguire l’esempio, ma Thailandia, Laos e Vietnam continuano a commerciare a fronte di una domanda crescente.

La tragedia è che a causa del bracconaggio l’Africa perde fino a 15.000 elefanti all’anno (un elefante ogni 25 minuti). Di conseguenza, alcuni branchi si sono riversati in quei Paesi considerati più sicuri per le loro leggi anti-bracconaggio, per esempio il Botswana. Ed è questo che ha provocato uno spaventoso conflitto con gli umani. [Sì, il Daily Mail sostiene che gli elefanti sarebbero in grado di capire in quale Paese il bracconaggio è vietato…]

Gli ambientalisti sostengono che se la CITES cederà alle richieste dello Zimbabwe di vendere le sue preziose riserve di avorio, tale decisione avrà un “effetto catastrofico sugli elefanti di tutta l’Africa”, permettendo alle zanne ottenute in maniera illegale di entrare più facilmente nel mercato. L’Interpol afferma che i soldi guadagnati dal traffico dell’avorio si avvicinano alle fortune fatte dal traffico di droga, armi e esseri umani.

Il principe William è uno dei sostenitori più importanti dei diritti degli elefanti africani. Non a caso è Presidente dell’associazione britannica Tusk Trust, che fa campagne per salvaguardare la fauna selvatica in Africa e reprimere il commercio di avorio. Anche se il suo ufficio stampa non ha voluto commentare la decisione dello Zimbabwe di sbarazzarsi delle scorte di avorio e aumentare le vendite di elefanti selvatici, il Principe ha recentemente affermato che le creature potrebbero “scomparire” quando sua figlia Charlotte compirà 25 anni.

Eppure ci sono due facce della medaglia di questa triste vicenda. In alcune parti dell’Africa dove il numero di elefanti è in aumento, l’animale è odiato dalle popolazioni locali. Non vedono alcun vantaggio nell’essere circondati da queste enormi creature, che uccidono i contadini, il bestiame, distruggono i raccolti e i depositi di grano, le case, gli alberi e i sistemi di distribuzione dell’acqua.

Il Botswana ne è un esempio. A giugno, Ray Chumbo ha trovato un elefante che vagava per la sua fattoria a Tutume, nel Botswana orientale, vicino al confine con lo Zimbabwe. Il 78enne ha sparato diversi colpi per spaventarlo, ma l’elefante ferito lo travolto uccidendo. “Quando ha sparato l’ultimo colpo, l’elefante gli è venuto addosso”, ha detto Julius Chiabeswahu, un amico che era con Ray quella notte. “Gli elefanti non sono buoni, devastano i campi e i pascoli. Questo qui aveva distrutto il sistema di irrigazione che avevamo appena costruito. Se tornasse, come potrei difendermi?”.

Dall’altra parte del paese, nel delta dell’Okavango, il cuore turistico della fauna selvatica del Botswana, un’altra famiglia è in lutto. All’inizio di quest’anno, Balisi Sebudubudu, 38 anni, mandato a prendere una mucca da macellare per il funerale di suo fratello minore, è stato schiacciato da un elefante. Dopo questa doppia tragedia, il membro della famiglia più anziano, lo zio David Sebudubudu, ha detto: “Se avessi i soldi, comprerei quattro, cinque o otto fucili e sterminerei quell’elefante. Non si può paragonare la vita di un essere umano con quella di un elefante”.

Anche i bambini non sono risparmiati dagli elefanti. Un ragazzino di dieci anni, Ontebaganye Ngoma, è sopravvissuto a un attacco nel villaggio di Gumare. Un pomeriggio, lui e sua nonna, Shimwe, stavano cercando legna da ardere, quando un elefante comparso all’improvviso ha preso il bambino con la proboscide e gli ha rotto una gamba. I medici dell’ospedale locale affermano che nella zona sono numerosi i bambini vittime di questo tipo di incidenti.

L’ondata di attacchi ai villaggi africani ha portato il presidente Masisi ad ammonire duramente gli ambientalisti occidentali: “Queste persone pensano che gli elefanti siano animali domestici. Mi sorprende quando dai loro salotti ci danno lezioni su una specie con cui non hanno mai convissuto”.

Eppure pochi non riescono a provare orrore alla vista dei giovani elefanti dello Zimbabwe nelle casse, sedati, presi a calci e frustati prima di essere trasportati in luoghi lontani, magari per diventare protagonisti di spettacoli al circo o concerti.

Il processo di cattura è quasi sempre questo: quando i funzionari individuano una mandria con giovani di età compresa tra i cinque e i sette anni, li catturano sparandogli del sedativo. Dopo il crollo dei piccoli, il pilota lancia bombe sul resto degli esemplari per dissuaderli dal venire in soccorso. Quando la mandria si disperde, una squadra di terra si avvicina a piedi agli elefanti sedati, li raggruppa e li trascina su rimorchi, su cui vengono scortati in una tenuta per essere poi inviati all’estero. Il processo è crudele e, ai nostri occhi, ripugnante. La questione è tuttavia se la vita degli elefanti valga più di quella degli umani, specialmente in un continente dove gli stessi umani muoiono di fame. E se gli occidentali, dai loro confortevoli salotti, dovrebbero dire all’Africa cosa fare.

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