Slavoj Žižek
In Defense of Hegel’s Notion of Monarchy
(“The Philosophical Salon”, 11 marzo 2024)
Come è noto, Hegel sostiene la monarchia costituzionale come unica forma di ordine politico adatta alla società moderna. I suoi numerosi critici vedono questa strana difesa o come un chiaro segno dei limiti immanenti della sua filosofia o come sintomo del suo conformismo politico, con alcuni interpreti più benevoli che la considerano un astuto espediente per aggirare la censura.
Il primo tra i critici più caustici della nozione di monarca di Hegel è ovviamente Marx. La critica di Klaus Vieweg alla nozione di monarchia in Hegel è tuttavia di gran lunga la più ponderata tra le tante: ciò che egli cerca di dimostrare è che la deduzione di Hegel è sbagliata nei termini della sua stessa filosofia.
Hegel giustifica il ruolo necessario del monarca con riferimento al sillogismo, alla struttura sillogistica del potere statale, ma Vieweg sostiene che la forma stessa di sillogismo a cui si riferisce (sillogismo disgiuntivo) imporrebbe una soluzione democratica con il popolo come fonte ultima del potere legittimo (per una critica piuttosto equilibrata di Vieweg, cfr. S. Stein, Hegel’s Monarch, the Concept and the Limits of Syllogistic Reasoning, 2016).
Al giorno d’oggi però Hegel potrebbe trovare una piena giustificazione? Partiamo da una descrizione semplice e chiara della concezione di Hegel:
«Hegel non è un democratico, è un monarchico, che però vuole la monarchia perché non vuole un governo forte. Egli desidera de-enfatizzare [deemphasize] il potere [e perciò] sviluppa una concezione idealista della sovranità che contempla un monarca meno potente di un Presidente [s’intende di un Presidente eletto democraticamente]».
E questo è l’esempio di Mark Tunick sul funzionamento della monarchia hegeliana (cfr. Hegel’s Justification of Hereditary Monarchy, 1991):
«Hegel suppone che il consiglio del monarca, i cui membri sono scelti in base a criteri oggettivi, possa risolvere un problema almeno fino al punto in cui solo una volontà arbitraria potrebbe scegliere tra le vaarie opzioni. Il consiglio esclude tutte le alternative negative (cosa che la democrazia non fa), finché le opzioni rimanenti non sono ugualmente meritevoli. Anche se il monarca decidesse su ogni questione politica, […] prenderebbe una decisione “infondata” che avrebbe comunque un fondamento.
Per fare un esempio concreto: supponiamo che il sovraffollamento delle carceri sia giunto a un tale livello da rendere impossibile arrestare i criminali appena condannati. Un’alternativa sarebbe giustiziarli tutti. Un’altra costruire nuove prigioni (il che rappresenta un costo). Un’altra ridurre le condanne di alcuni criminali già in prigione per fare spazio ai nuovi. Un’altra è lasciare liberi i criminali appena arrestati. Un’altra è escogitare nuove pene. Alcune di queste alternative non saranno accettabili e il consiglio le scarterà. Le alternative rimanenti sono fondate (vale a dire sul principio che non dobbiamo uccidere o che dobbiamo punire i malfattori), ma si suppone che sia arbitra la scelta di una di esse. Il monarca decide proprio su questo».
Dovrebbe essere chiaro da questo esempio ciò che Hegel teme, e anche perché la sua paura è ancora più attuale ai nostri giorni: il governo diretto di esperti che giustificano le loro decisioni con ragioni (pseudo-scientifiche) incomprensibili alla maggior parte dei cittadini comuni. Basta ricordare come oggi le decisioni economiche siano legittimate dagli esperti economici come semplice intuizione scientifica neutrale, e come in questo modo il pregiudizio politico di queste decisioni scompaia dalla vista, venga liquidato come “ideologico”…
Hegel è consapevole della necessità di un “Maestro” [Master, “padrone” in gergo lacaniano?, ndt] elevato al di sopra del sistema della conoscenza (in termini lacaniani, del “discorso dell’università”), quindi vuole mantenere un potere che decida al di fuori della conoscenza degli “esperti”. Tuttavia il filosofo è allo stesso tempo consapevole che un ritorno a un Maestro premoderno che regna direttamente sarebbe inaccettabile nei tempi moderni; la sua soluzione è, quindi, un monarca la cui funzione è in ultima analisi solo quella di “mettere i puntini sulle i”, di approvare con la sua firma decisioni proposte da esperti qualificati.
Vieweg ha ragione nel sostenere che la chiave per la corretta comprensione del concetto hegeliano di monarca è fornita dalla sua nozione di sillogismo disgiuntivo (come ulteriore sviluppo del sillogismo della necessità); ma accusa Hegel di aver frainteso le implicazioni politiche di questo sillogismo. La sua struttura è quella del PUI [Particular, Universal, Individual; ndt]: la dimensione universale (persone rappresentate nell’assemblea legislativa) che media tra la dimensione particolare (potere esecutivo) e l’individuo (il monarca come decisore). In breve, a differenza della monarchia premoderna in cui il re governa direttamente i suoi sudditi, in uno Stato moderno le persone, nella loro dimensione universale, regolano e controllano entrambi gli estremi del potere esecutivo e decisionale:
«L’applicazione del sillogismo disgiuntivo alla struttura della costituzione interna dello Stato conduce ad un risultato del tutto sorprendente, in contrasto con quanto sostengono i Lineamenti di filosofia del diritto: esso realizza la legittimazione teorica di una costituzione repubblicana e democratica e rivela l’importanza fondamentale dell’assemblea legislativa come espressione di una struttura rappresentativo-democratica» (cfr. K. Vieweg, Das Denken der Freiheit, 2012).
Tuttavia, Hegel viola davvero la logica del sillogismo disgiuntivo? È lo stesso Vieweg a ignorare ciò che la definizione indica: la dimensione della disgiunzione è localizzata da Hegel nell’universalità mediatrice stessa. Ecco un passaggio della Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio che già indirizza verso il ruolo del monarca:
«Se l’universale, che è il mediatore, è posto anche come totalità delle sue specificazioni, e come un particolare singolo, individualità esclusiva, — si ha il sillogismo disgiuntivo; — in modo che l’uno e medesimo universale è nelle determinazioni di questo come se vi si trovi soltanto nelle forme della differenza» (tr. it. Benedetto Croce).
La disgiunzione divide quindi l’universalità stessa nella totalità dei suoi membri particolari e nell’individualità esclusiva che dà direttamente corpo all’universalità. Come diciamo nel gergo quotidiano, il monarca non rappresenta il popolo; il monarca è il popolo. Solo attraverso il monarca si attualizza l’universalità del popolo.
Nel suo saggio La giurisdizione del monarca hegeliano, Jean-Luc Nancy sottolinea questa dimensione “performativa” del monarca (per usare il linguaggio odierno) che si avvicina a ciò che Lacan chiamava il significante puro (il significante-padrone, un significante che cade nel significato ed è come tale un significante senza significato). Ed è così che si dovrebbe leggere la tautologia “Il socialismo è socialismo”. Ricordate la vecchia barzelletta anticomunista polacca: “Il socialismo è la sintesi delle più alte conquiste di tutte le precedenti epoche storiche: dalla società tribale ha preso la barbarie, dall’antichità ha preso la schiavitù, dal feudalesimo ha preso i rapporti di dominio, dal capitalismo ha preso lo sfruttamento e dal socialismo ha preso il nome”.
Non vale forse lo stesso per le rappresentazioni antisemite dell’ebreo? Dai ricchi banchieri ha preso la speculazione finanziaria, dai capitalisti lo sfruttamento, dagli avvocati l’inganno legalizzato, dai giornalisti la manipolazione dei media, dai poveri l’indifferenza verso l’igiene, dai libertini la promiscuità e dagli ebrei ha preso il nome… Ed è anche per questo che un re è un re: aggiunge solo il suo nome. Ma, ancora una volta, perché è necessario un monarca? Perché la democrazia rappresentativa (o, ancora meglio, una qualche forma di auto-organizzazione diretta del popolo) non è adatta a svolgere tale ruolo?
Per capire ciò, si dovrebbe considerare il divario che separa due triadi sillogistiche: quella dell’intera società (vita familiare individuale, mercato e produzione nella società civile, Stato) e quella dello Stato come istituzione (potere legislativo, potere esecutivo, monarca-decisore: UPI [Universal, Particular, Individual; ndt]). Quando Vieweg eleva al ruolo di mediazione centrale la forma politica dell’universalità (“Assemblea legislativa come espressione di una struttura rappresentativa-democratica”), ignora un’altra disgiunzione: indipendentemente da come sia formato (anche nelle elezioni democratiche più aperte con il diritto universale al voto), il potere legislativo mantiene sempre, per definizione, un divario rispetto al “popolo reale”.
Negli ultimi decenni, una serie di eventi ha reso palpabile tale divario. Ricordate le proteste dei gilet gialli (gilets jaunes) in Francia che sono andate avanti per oltre venti fine settimana da fine 2018 a inizio 2019. Sono iniziate come un movimento di base che è cresciuto dal malcontento diffuso per una nuova eco-tassa su benzina e gasolio, vista come un attacco per chi vive e lavora fuori dalle aree metropolitane dove non ci sono trasporti pubblici. Il movimento è cresciuto fino a includere una serie di richieste, tra cui la Frexit (l’uscita della Francia dall’UE), tasse più basse, pensioni più alte e un rafforzamento del potere di acquisto del francese medio.
I gilet gialli sono un caso esemplare di populismo di sinistra, dell’esplosione dell’ira popolare in tutta la sua incoerenza: tasse più basse e più soldi per istruzione e assistenza sanitaria, benzina più a buon mercato e difesa per l’ambiente… Sebbene la nuova tassa sulla benzina fosse ovviamente una scusa o, meglio, il pretesto, e non ciò su cui le proteste vertevano “realmente”, è significativo che ciò che ha scatenato le proteste sia stata una misura intesa ad agire contro il riscaldamento globale. Non c’è da stupirsi che Trump abbia sostenuto con entusiasmo i gilet gialli, considerando che una delle loro richieste fosse l’abbandono dell’accordo di Parigi da parte della Francia. La cosa da notare è che quando i rappresentanti dei gilet gialli hanno incontrato i rappresentanti del governo, i colloqui sono stati un fallimento totale: semplicemente, non parlavano la stessa lingua.
Ricorderete anche le elezioni del Regno Unito del 2005: nonostante la sua crescente impopolarità, Tony Blair vinse lo stesso. Non c’era modo che questo malcontento nei suoi confronti trovasse un’espressione politicamente efficace. C’è chiaramente qualcosa di sbagliato in ciò: non è che le persone “non sanno cosa vogliono”, ma, piuttosto, che una cinica rassegnazione impedisce loro di agire di conseguenza, così che il risultato è lo strano divario tra come le persone pensano e come agiscono (cioè votano). Una tale frustrazione può fomentare pericolose esplosioni di natura extraparlamentare, specialmente in forma di rabbia popolare nel populismo odierno.
Podemos rappresenta senza dubbio al meglio le proteste populiste contro i meccanismi statali: contro le arroganti élite intellettuali politicamente corrette che disprezzano la “ristrettezza” delle persone comuni che sono considerate “stupide” perché “votano contro i loro interessi”, il suo principio organizzativo è ascoltare e organizzare coloro che “stanno in basso” contro coloro che “stanno in alto”, al di là di tutti i modelli tradizionali di sinistra e di destra. L’idea è che il punto di partenza della politica emancipatrice dovrebbe essere l’esperienza concreta delle sofferenze e delle ingiustizie subite dalle persone comuni nel loro ambiente ristretto (casa, posto di lavoro, ecc.), non visioni astratte di una futura società comunista o di qualsiasi altra società.
Sebbene i nuovi media digitali sembrino aprire lo spazio a nuove comunità, la differenza tra queste nuove comunità e le vecchie comunità del mondo di vita è cruciale: le vecchie comunità non vengono scelte, ci si nasce dentro, formano lo spazio stesso della mia socializzazione, mentre le nuove comunità digitali mi includono in un dominio specifico definito dai miei interessi e quindi dipendente dalla mia scelta.
Lungi dal rendere inadeguate le vecchie comunità “spontanee”, il fatto che non si basino sulla mia libera scelta le rende superiori rispetto alle nuove comunità digitali, poiché mi costringono a trovare una strada in un mondo di vita preesistente e non scelto, in cui mi imbatto in differenze reali (che devo imparare a gestire), mentre le nuove comunità digitali che dipendono dalla mia scelta sostengono il mito ideologico dell’individuo che in qualche modo preesiste a una vita comunitaria ed è libero di sceglierla. Mentre questo approccio contiene senza dubbio un (grosso) granello di verità, il suo problema è che, per dirla senza mezzi termini come Ernesto Laclau, non solo la società non esiste, ma non esistono nemmeno le “persone”… Nonostante ciò, sono sorti numerosi problemi quando Podemos ha deciso di trasformarsi in un partito politico ed è entrato in un governo: la sua politica in quel momento è divenuta indistinguibile da quella di un partito socialdemocratico moderato.
Questa lacuna potrebbe essere colmata dalla democrazia deliberativa, basata su assemblee popolari composte da esperti civili e individui scelti a sorte per discutere un certo argomento? La democrazia deliberativa può aiutare, ma deve essere sostenuta da una chiara struttura decisionale: il punto chiave è che le assemblee deliberative non decidono. Ecco perché, anche oggi, è necessaria qualcosa come la monarchia. In quanto capo decisore, il monarca non è qualificato da alcuna caratteristica; rappresenta il popolo in quanto tale, nella sua universalità, che è esclusa non solo dalle istituzioni statali, ma comprende anche tutte le divisioni interne e le lotte di fazione. Questa unità disgiuntiva è resa al meglio dal fatto che i media riportano le abitudini e le preferenze personali del monarca e della famiglia monarchica (musica, libri, giardinaggio, sport…), una cosa che sarebbe totalmente priva di interesse in caso di una persona comune. Il re è un uomo comune elevato a capo decisore; in maniera più estrema potremmo persino affermare che è un membro della massa [rabble], di coloro che non hanno un posto determinato nella gerarchia sociale. Ma una cosa è certa: il modo per reintrodurre un qualcosa come un “monarca” oggi dovrebbe sicuramente includere una componente di azzardo, cioè la sua scelta dovrebbe essere lasciata al caso.
Ecco perché Hegel si oppone quasi fanaticamente a ogni elucubrazione sulla giustificazione dell’autorità di un re: questa autorità non è un argomento di dibattito, è incondizionata e, come tale, vuota. Il miglior argomento contro il potere effettivo del monarca è la tautologia: “Il re è un re”.
I = Individual
P = Particular
U = Universal
Grazie! Non riesco a capire se si tratti di gergo dell’accademia anglosferica o di un acronimo talmente ovvio che solo uno totalmente estraneo dalla “scena” ormai da quasi vent’anni potrebbe ignorare, oppure un tipico sghiribizzo di Zizek. In due ore di ricerca non sono riuscito a risalire in alcun modo al significato, dunque ancora grazie.
no, è la traduzione delle iniziali dei tre termini del sillogismo. Le usa anche Hegel sia nell’Enciclopedia che nella Scienza della logica per schematizzare le varie forme di sillogismo.
Avevo completamente rimosso, forse avrei dovuto andare a rileggermi quelle pagine anche alla luce dell’affidabilità ermeneutica del buon Zizek
Il popolo non è decisore arbitrario dal momento che questa è una proprietà che può appartenere soltanto a individui e non a insiemi di individui, questi ultimi sarebbero l’equivalente di una mente schizofrenica cioè divisa in se stessa. Il singolo elettore va a votare per il suo partito credendo che la sua scelta sia quella “oggettivamente” corretta alla stregua non di un monarca che decide quale strada imboccare dopo attenta ponderazione sapendosi e sapendo i suoi tecnici non onniscienti (che poi è il concetto stesso di sovranità, altrimenti non ce ne sarebbe bisogno) bensì a mo’ di despota che pensa di sapere con certezza quale scelta fare in ogni istante. Ne segue una ostilità perpetua tra fazioni di reuncoli in lotta tra loro come le diverse personalità di un disturbato, soggetto a cui non può né mai potrà appartenere sovranità. Il popolo non può essere sovrano. Eccezione possibile per comunità estremamente omogenee (quindi piccole) e internamente pacifiche e benevolenti tra loro come le congregazioni amish in cui una democrazia deliberativa può incarnare una reale sovranità popolare.
Ein Volk, ein Land, ein…