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In Francia è esplosa la questione della “laicità a scuola”

Entrando in una libreria italiana (almeno finché resteranno aperte, ché durante i lockdown i libri diventano “beni non essenziali”), nel reparto dedicato all’istruzione si troveranno tra gli argomenti più gettonati l’inclusione, il bullismo e la fatiscenza delle strutture scolastiche. Nelle librerie francesi, invece, si scoprirà che a dominare la sezione è perlopiù il tema della laïcité: i tomi dedicati all’argomento negli ultimi anni si sono moltiplicati, specie in concomitanza con l’ascesa della “questione islamica” nelle aule.

Tuttavia, già in tempi non sospetti l’opinione pubblica transalpina era stata ripetutamente sottoposta ai vari rapport sulla salute dei “valori della repubblica” tra i banchi di scuola: celebri quelli Obin (2004, che peraltro ha appena pubblicato il disarmante Comment on a laissé l’islamisme pénétrer l’école) e Clavreul (2018), ma il più singolare resta quello del 2002 a firma nientepopodimeno che di Régis Debray, L’enseignement du fait religieux dans l’école laïque, risalente all’epoca in cui venne reintrodotta la fatidica “ora di religione” negli istituti statali francesi.

L’iniziativa fu assunta dal superministro Jack Lang, al quale l’ex guerrigliero guevarista, riscopertosi alfiere gollista, fece da sponda con un “rapporto” apologetico della scelta socialista di ripristinare l’insegnamento della religione (soppresso nel 1882 dall’allora ministro dell’Istruzione Jules Ferry), naturalmente stemperato in “storia della religione” (o addirittura in “insegnamento del fatto religioso”), come antidoto all’edonismo, al consumismo, all’americanismo ecc.

In verità il progetto, più che da Debray, all’epoca sembrò ispirato direttamente da quel celebre motto attribuito a Chesterton, “Chi smette di credere in Dio comincia a credere a tutto”, poiché la prima giustificazione addotta fu la necessità di contrastare la proliferazione di sette millenaristiche cominciata almeno a metà anni ’90, quando l’intero mondo francofono (Canada e Svizzera romanda comprese) si trovò ad affrontare il fenomeno dei “suicidi collettivi” istigati dal famigerato Ordine del Tempio Solare.

Dunque non fu, come potremmo pensare dalla prospettiva odierna, il pericolo di “islamizzazione” della scuola pubblica a ispirare la scelta di introdurre una storia del sacro nelle forme di una lezione di educazione civica (o viceversa), ma i deliri fin de siècle che turbavano la già traballante coscienza jospniana. Del resto, a dimostrazione che il problema dell’islam subentrò in un secondo momento c’è la famosa “legge anti-velo” (che vieta “l’ostentazione di simboli religiosi” nelle scuole) fatta approvare da Chirac nel 2004.

Il progetto era insomma nato con i migliori auspici: addirittura si era parlato di un Istituto Europeo in Scienze delle Religioni (non pervenuto) che avrebbe dovuto formare i docenti all’insegnamento del fait religieux. Nel frattempo però, con l’ascesa della bestia nera del cosiddetto communautarisme (concetto della politologia che nel mainstream transalpino è diventato sinonimo di “collettivismo islamico”), dalla “storia delle religioni” si è dovuti passare direttamente ai “valori della repubblica”, fino a quando dopo gli attentati a Charlie Hebdo la situazione non è precipitata e gli insegnanti si sono ritrovati completamente spaesati a domandarsi “Ma noi, alla fine, in quest’ora, che diavolo dovremo insegnare?”.

Anche il barbaro assassinio di Samuel Paty rientra indirettamente nella questione, perché se quella benedetta lezione di educazione civica si fosse svolta dieci anni prima egli si sarebbe probabilmente ritrovato a discettare di induismo o vita del Buddha, piuttosto che mostrare caricature di Maometto a dei ragazzini. La questione centrale è che, nonostante le librerie di cui sopra si riempiano di Piccoli manuali sulla laicità, nessun insegnante ha ancora ben chiaro come si dovrebbe insegnare tale “laicità”.

 

Se lo è chiesto per esempio il giornalista Frédéric Béghin in Une prière pour l’école. Les profs face au casse-tête de la laïcité (2018), volume nel quale appunto affronta il “rompicapo” della laïcité, questa cosa che nessuno sa cosa sia ma che va comunque ficcata nella testa dei discenti: l’Autore denuncia l’impreparazione “strutturale” dei docenti nell’adempiere all’obiettivo di “trasmettere i valori della repubblica”, alla quale si aggiunge la vaghezza delle indicazioni ministeriali, peraltro ormai irrimediabilmente intaccate dal politicamente corretto. D’altro canto Béghin semplifica troppo l’essenza di tali valori, come se riguardo a essi non regnasse un’incertezza pressoché assoluta. E come se rendere edotti un gruppo di adolescenti magrebini alla libertà di parola equivalesse a fargli capire che uno più uno fa due.

Più incisivo e combattivo Bernard Ravet, preside in pensione (per questo può parlare liberamente) di tre licei nei quartieri “difficili” di Marsiglia tra il 1999 e il 2012, che nel suo “memoriale” Principal de collège ou imam de la République (2017) ripercorre i momenti più salienti dell’islamizzazione della provincia, da un collaboratore scolastico che fa proselitismo alle liti con le ragazze che non vogliono togliersi il velo all’ingresso, per non parlare delle mense monopolizzate dalle paranoie halal e l’orario delle lezioni distorto dai ritmi del ramadan. I toni veementi con cui Ravet stigmatizza l’autocensura a cui i dirigenti come lui sono costretti (talvolta volontariamente, per ideologia o conformismo) hanno naturalmente suscitato polemiche altrettanto accese: anche i sindacati sono intervenuti tacciandolo di allarmismo e disfattismo, e comunque contestando il fatto che la scuola sia “terreno di coltura” per l’islamizzazione, quando essa non farebbe altro che riflettere i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nella società francese.

È un po’ il cane che si morde la coda: aver reintrodotto la religione, seppur nelle forme suddette, nel discours public ha in qualche modo incentivato il dilagare dell’islamismo, oppure tutto ciò non è che lo specchio dei tempi, nonché dalla prospettiva che una volta fu anche quella di Macron, un semplice impedimento nel pacifico e scontato percorso di integrazione? La questione del “velo”, a tal proposito, risulta effettivamente emblematica, se si pensa che la carriera militante di Idriss Sihamedi, fondatore della ONG islamica internazionale BarakaCity, sciolta alla fine di ottobre a mo’ di capro espiatorio, iniziò nel 1994 tra i ranghi del Tabligh (organizzazione fondamentalista indo-pakistana) in difesa di quattro liceali alle quali era stato impedito di entrare in una scuola della Val-d’Oise perché appunto velate: un quarto di secolo dopo una battaglia assolutamente minoritaria, quasi una lite di cortile, sarebbe giunta al cuore del “discorso pubblico”.

Da tale prospettiva sembra che la decapitazione di Samuel Paty si sia inaspettatamente rivelata la fatidica goccia che fa traboccare il vaso: era inevitabile che prima o poi il problema si ponesse anche a livello politico e non solo editoriale o educativo, ma lo scatto in avanti di Macron ha accelerato i tempi e infuocato il dibattito. La lotta all’associazionismo islamico e alla figura del “buon imam di quartiere” (per decenni simbolo di integrazione riuscita) si muove tra i paraventi retorici del Presidente, che continua imperterrito a proporre la dicotomia “islamico/islamista” (tanto da averla sdoganata persino tra le vestali del politicamente corretto di mezza Europa) e le sparate al fulmicotone del transfuga gollista Gérald Darmanin, che pur essendo al dicastero degli Interni da pochi mesi si è già rivelato per Macron “l’uomo giusto al posto giusto”.

O l’uomo sbagliato al posto sbagliato, naturalmente, perché se la scommessa del tecnocrate repubblicano dovesse rivelarsi perdente, da una parte Parigi avrebbe compromesso antichissimi rapporti diplomatici con diverse nazioni islamiche e dall’altra avrebbe introdotto a livello istituzionale il gergo della guerra civile con una irruenza che forse nemmeno una Marine Le Pen “di governo” si sarebbe concessa. Se non altro, la scossa politico-culturale derivata dall’attivismo macroniano consentirà di far piazza pulita dell’indifferenza, del lassismo e dell’ipocrisia: chi vuol difendere le proprie idee d’ora in avanti avrà più chiaro il prezzo da pagare, mentre gli altri non potranno più nascondersi dietro l’appianamento istituzionale e l’indifferenza ammantata di tolleranza.

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