In un mondo senza auto, chi scarrozzerà le ambientaliste?

In questo post ho una sequela di filippiche paraboomer da esporre ma, come un vero gentista che si rispetti, non saprei nemmeno da dove iniziare. Vabbè, partiamo dall’ormai eterna polemica contro le automobili: le povere ditte produttrici si sono fatte in quattro per riconvertirsi all’elettrico, spendendo i loro sudati capitali più per il greenwashing reclamistico che per ammodernarsi, e naturalmente nessuno di questi “terrapiattisti verdi” ha apprezzato.

Le macchine, per gli “Ultima Generazione” (che sono i “Seconda Generazione” dei trinariciuti) dovrebbero semplicemente sparire, perché il futuro sarà la bicicletta, anzi nemmeno quella perché l’invenzione della ruota potrebbe offendere qualche subsahariano appena sbarcato che non concepisce tale tecnologia all’avanguardia (per non dire dei meme americani sulle bici rubate sempre dal solito stock character).

Il futuro della mobility saranno i piedi, dato che ci si sposterà nelle famose città di 15 minuti per andare a comprare la cannabis light dal “droghiere”, i vibratori al sexy shop inclusivo (rifornito anche di estintori)  e del delizioso Soylent Green nel nuovo punto vendita equosolidale gestito da Satanazon in una joint venture con le ndrine locali.

E se però nel comune di Sborrate di Sotto dei trans dovessero incollare i loro peni femminili sul vetro di un’edicola votiva in una manifestazione contro i combustili fossili (che è una definizione inventata dai biechi capitalisti per dare un’idea di scarsità del prodotto, mentre il petrolio è un minerale che si rinnova continuamente ed è dunque inesauribile), chi scarrozzerà la giovane ambientalista che non ha la patente ma al contempo si rifiuta di prendere i mezzi pubblici perché troppo “inclusivi” anche per i suoi standard?

Beh, ci penserà o papà Gianagato Subsettis (tessera n. 6666 del Partito Libtardiano) con il suo modello di Jaguarari progettato per uccidere con le sue emissioni esclusivamente i cuccioli di beagle, oppure il suo fidanzato Kevin Yusuf Simpescu con un bestione da 150 cavalli ancora targato D perché appena rubato a Bonn dal parco-macchine del cugino della Merkel. Altrimenti, prenderà un taxi, anzi, ancora meglio (del resto i tassisti sono tutti petrocapitalisti), si rivolgerà alla nuova app che come autisti assume solo profughi nigeriani (rigorosamente senza patente) per evadere meglio le tasse.

Non sto inventando nulla: ai tempi dei famosi Fridays For Future, che ora sono spariti perché Greta era letteralmente un’operazione di Hasbarà per impedire che la comunità internazionale si occupasse di Israele e pensasse solo a come tenere attaccati i tappi di plastica alle bottiglie (qui i dettagli; poi come è noto, complice forse un bel Magrechad con la kefiah, la bimba prodigio ha iniziato a giocare con un pupazzetto a forma di polpo e adesso guai a chi la nomina), dicevo, ai tempi in cui questi scalmanati (metà 2019 circa) si allungavano il fine settimana saltando scuola contro il cambiamento climatico (ma a favore del cambiamento ormonale), il “Corriere della Sera” intervistò una sedicenne che aveva appunto “marinato” (Ok Boomer) per andare alla sfilata ambientalista, la quale tutta orgogliosa proclamò di essersi recata a manifestare da sola, con il giornalista del fogliaccio di Via Solferino a farle i complimenti: “Pensate, non ha nemmeno preso la macchina!”. Ma sticazzi, ha sedici anni! O forse era implicito che qualcuno la accompagnasse?

Questo mi pare sia il problema principale: rinunciare all’automobile è un “costo”, non solo economico, che quasi nessuno può permettersi, in Italia come in qualsiasi altra nazione del Primo Mondo. Lasciando da parte la mera constatazione che muoversi con i mezzi persino nelle grandi città è un suicidio, anche per chi deve solo andare a spasso ma mantiene comunque l’obiettivo di tornare a casa senza una coltellata o un frammento di bottiglia rotta di un occhio.

Sono due problemi ben distinti (trasporto pubblico & sicurezza) che però inevitabilmente si incrociano nell’Europa contemporanea: città come Londra o Bruxelles godono di una superiorità obiettiva in termini di fermate e chilometri di bus e metro, così come Amsterdam ha tipo un miliardo piste ciclabili, ma la facilità di spostamento è totalmente inficiata dalla pericolosità sociale dei soggetti che usufruiscono, assieme agli “indigeni”, di tali servizi.

Non voglio però ridurre il discorso a una arringa contro i picchepochetts o, sulla sponda opposta (in tutti i sensi) all’illusione che bodenziando lo servizzio buppligo magicamente nessuno avrà più bisogno della macchina, perché esiste una questione più profonda di cui pochi sono in grado di rendersi conto, e che interseca vari livelli di speculazione (storia, antropologia e persino etnologia). Parlo del fatto che ci sono Paesi e località in cui lo spostamento tramite mezzi privati non è stato imposto da un bieco complotto dell’industria automobilistica, ma dalla semplice conformazione del territorio unita alla mentalità di chi lo abita, che si è formata in decine di generazioni (ho dedicato un post a parte all’argomento perché altrimenti non finivo più).

Per una etnologia dell’automobile: l’amaxofilia dagli Appalachi al Veneto

Alla fine penso che il problema siano sempre le donne, non solo nel senso che abbiano sempre bisogno di qualcuno disposto a scarrozzarle ma al contempo si facciano promotrici dell’ultima stronzata ecologista messa in giro dalle solite “agenzie culturali”. In fondo, stiamo parlando di quelle creature che un giorno scrivono “chad al volante mi fa sesso, cambia di scatto e sorpassa il beta umiliandolo” e il giorno dopo “minchia che palle oh ‘sti fissati con le auto, i macchinoni sono una compensazione della micropenia” (è letteralmente la stessa d-parola e la potete rintracciare su qualsiasi social moltiplicata a migliaia).

Non volevo però riferirmi solo alle eterne contraddizioni dell’animo femminile: pensavo più che altro al ruolo che le donne detengono nel ciclo suicidario della Rivoluzione, che da una parte le vorrebbe tutte motorizzate e dall’altra fautrici dell’elettrico come primo passo verso la rinuncia graduale del mezzo privato.

Siamo reduci da oltre vent’anni di giornalismo basato sullo smentire la veridicità del proverbio Donna al volante pericolo costante: le donne guidano meglio e fanno meno incidenti, e non importa se le statistiche confermino che il merito principale risieda nel fatto che guidino in una percentuale nettamente inferiore rispetto ai maschi, perché la squallida realtà delle proporzioni non fermerà mai l’empowerment.

Dunque, per i filantropi solo le donne dovrebbe guidare, e gli uomini stare a casa a fare la calzetta. Il migliore dei mondi possibili, se non fosse che nell’evo successivo sia subentrato un altro diktat: abbandonare la macchina per salvare l’umanità. Adesso il leitmotiv è “non possiedo più un’auto e la mia vita è migliorata di mille punti felicità“. L’esempio virtuoso è regolarmente incastonato in un universo parallelo di fancazzismo assoluto (o smartworking), e la sua virtuosità pare risiedere esattamente nell’impossibilità di replicarlo.

D’altro canto, non è che la “destra autistica” (intendo quella che difende i macchinoni) sia in grado di produrre una “contronarrazione” plausibile: Donald Trump ha combattuto la crociata contro l’elettrico fino a ieri, intendo proprio ieri, quando Elon Musk è andato a saltellare autisticamente (qui non nel senso dei macchinoni) a uno dei suoi comizi.

Alla fine l’ultimo “giapponese nella giungla” è rimasto il Generale Vannacci (che peraltro ha un grado superiore a Hiroo Onoda), il quale tuttavia non ha avuto l’ardire di presentarsi alle ultime europee in qualità di puro “motorista” come invece ha fatto il partito ceco Motoristé sobě (“Motoristi per conto loro”, sic), che grazie al carisma dell’ex pilota Filip Turek (collezionista di Jaguar e revolver) è riuscito a ottenere due seggi all’Europarlamento.

Probabilmente è solo una fazione della Rivoluzione che combatte l’altra, e di conseguenza si torna all’inizio: Gianagato Subsettis che si vanta con gli amici bar della figlia che si sta laureando in “certificazioni di parità di genere” per le imprese e poi sgomma verso l’altro bar con le slot (perché apre più tardi) a intimare agli astanti di fare silenzio affinché la destra possa lavorare (nonostante abbia le “mani legate”); la figlia che non può rinunciare un solo giorno a farsi trasportare da un luogo all’altro per umiliare il petropatriacato e che nonostante il suo professore di Epistemologia Decoloniale le abbia confermato a lezione che “usare per tre ore i social inquina come viaggiare in auto per un’ora” non ha alcun rimorso ad arricchire incessantemente la sua corte di simp ambientalisti.

Penso che l’unico modo per uscirne sia la dittatura. Non mi interessa di che colore sia (nera, rossa, verde), l’importante è che obblighi le persone a fare date cose in maniera netta e inequivocabile, ché la “persuasione” è il veleno più devastante per i popoli, e il criterio della “lunga distanza” lascia sul terreno una scia di utopie frustrate e desideri inappagati che impediscono qualsiasi possibilità di onesto confronto anche nei termini di una guerra civile.

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2 thoughts on “In un mondo senza auto, chi scarrozzerà le ambientaliste?

  1. Con Sborrate di Sotto ed Epistemologia Decoloniale hai toccato l’archè. Grazie Tot. Era tanto che non ridevo così.

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