Ho iniziato a usare il termine incel (che sta per “celibe involontario”) nel maggio 2018, nello stesso momento in cui la stampa italiana cominciò ad abusarne per parlare di un canadese di origine armena che a Toronto aveva ucciso dieci persone con un furgone (chi vuole può andare a rovistare qui e qui).
Era un chiaro modo di scimmiottare la ridicola tendenza a estrapolare un’espressione dal contesto e farne uno scandaglio universale per analisi pseudo-sociologiche di bassissima lega. Era già successo con la parola “femminicidio”, presa di peso dai resoconti delle stragi della mafia messicana e adattata a forza a un contesto completamente estraneo. È successo, tanto per fare esempi bipartisan (altro anglicismo che, come ricorda la Crusca, “parte dal presupposto di avere lo stesso sistema politico britannico formato da due poli compatti, unitari e contrapposti”), anche con l’espressione gender theory, diventata quella “teoria gender” che sembra un compendio del Malleus Maleficarum.
Ora, intuendo come sarebbe finita, ho deciso di abbracciare la nuova americanata nella maniera più zelante possibile, e il risultato è stato che davvero in pochi hanno capito. Persino persone che considero generalmente sveglie hanno cominciato ad ammorbarmi con toni da zia napoletana angosciata (A’ criatura vulesse fa o’ incelle), come se mi fossi iscritto ai terroristi o fossi entrato nella “setta dei raffinati” (per rimanere in tema Napoli).
Invece era un modo come un altro per trollare, in un contesto all’insegna della post-ironia più pura: così come non prendo seriamente le etichette di “italiano” (se non per ragioni legali), “fascista” (idem) e “cattolico” (se non per ragioni escatologiche), non vedo perché dovrei invece trovare la mia raison d’être nel “celibato involontario”.
Voglio dire: non che la mancanza di figa non sia un problema lancinante, ma non lo considero dalla mia prospettiva meno compromettente del fatto di non avere una patria degna di questo nome, nel credere in un’ideologia spazzata via dalla storia nella quale non confida più nessuno (fascismo o cattolicesimo, a voi la scelta), o più in generale nel non avere alcuna prospettiva che non sia quella di morire accoltellato in metro da uno spacciatore che ha avuto una giornata storta o suicidarmi perché una d-parola ha visualizzato i miei messaggi senza rispondere.
Inutile girarci intorno, io sono il tipico “occidentale illuminato” che Žižek ha perfettamente descritto in uno dei suoi saggi:
«Noi rifiutiamo i fondamentalisti in quanto “barbari”, anti-culturali, una minaccia alla cultura — loro osano prendere sul serio le loro credenze? Oggi, in fin dei conti, percepiamo come una minaccia alla cultura coloro che vivono in modo immediato la loro cultura, coloro che mancano di una distanza nei suoi confronti. Ripensiamo all’oltraggio di quando, alcuni anni fa, le forze talebane in Afghanistan distrussero le antiche statue buddiste a Bamiyan: sebbene nessuno di noi, occidentali illuminati, credesse nella divinità di Buddha, fummo così offesi perché i musulmani talebani non avevano mostrato il giusto rispetto per “l’eredità culturale” del loro stesso paese e dell’umanità intera. Invece di credere per mezzo di un altro, come tutta la gente di cultura, essi credevano veramente nella loro religione e così non avevano grande sensibilità per il valore culturale dei monumenti delle altre religioni — per loro le statue di Buddha erano solo falsi idoli, non “tesori culturali”»
Prendo talmente (poco) sul serio questa faccenda che mi sono fatto fare la tessera degli incel italiani utilizzando il brand con cui sono ormai conosciuto in tutto il mondo (dei senza figa), Roberto Totalitarismo.
Però non si capisce, e allora visto che mi sono stancato ho deciso che d’ora in avanti userò l’espressione con estrema parsimonia, anche perché la sua estraneità al contesto italiano consente la facile scappatoia di ridurre tutto a una questione di etichette e sigle. Allora chiamiamoli (chiamiamoci) “rami spogli” come fanno in Cina, o Uomini soli come facevano i Pooh (peraltro l’invocazione al Dio delle città e dell’immensità è l’ultima testimonianza di monoteismo patriarcale in Occidente).
Oppure, che ne so, adottiamo le formule con cui i nečaevisti tentavano di aggirare la censura: invece di “rivoluzionario”, essi usavano “uomo del futuro” o “uomo nuovo”. Sì, è vero, “uomini del futuro” sembra un fan club dei Devo (boomer almeno questi ve li ricordate?), mentre “uomini nuovi” suona veramente pathetic and gay, come direbbe il Poeta. Più pregnante, a mio parere, l’espressione con cui Bakunin apostrofò inizialmente la stessa nečaevščina: “abreki”. Il lemma Абрек indica “un montanaro del Caucaso bandito dal suo clan o che ha fatto voto o giurato di compiere una vendetta sanguinosa; in senso più esteso: combattente mosso dal coraggio della disperazione” (M. Confino). A seconda della latitudine può assumere il significato di “bandito”, “ardito” o “reietto”. Ecco, mi pare forse una definizione più adatta, anche alla luce del famigerato Catechismo del Rivoluzionario:
Революционер – человек обречённый. У него нет ни своих интересов, ни дел, ни чувств, ни привязанностей, ни собственности, ни даже имени. Всё в нём поглощено единым исключительным интересом, единой мыслью, единой страстью – революцией.
“Il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione”.
Суровый для себя, он должен быть суровым и для других. Все нежные, изнеживающие чувства родства, дружбы, любви, благодарности должны быть задавлены в нем единою холодной страстью революционного дела. Для него существует только одна нега, одно утешение, вознаграждение и удовлетворение – успех революции. Денно и нощно должна быть у него одна мысль, одна цель – беспощадное разрушение. Стремясь хладнокровно и неутомимо к этой цели, он должен быть готов и сам погибнуть и погубить своими руками всё, что мешает её достижению.
“Duro verso se stesso, deve essere duro anche verso gli altri. Tutti i sentimenti teneri che rendono effeminati, come i legami di parentela, l’amicizia, la gratitudine, lo stesso onore, devono essere soffocati in lui dall’unica, fredda passione per la causa rivoluzionaria. Per lui non esiste che un’unica gioia, un’unica consolazione, ricompensa e soddisfazione: il successo della rivoluzione. Giorno e notte, deve avere un unico pensiero, un unico scopo: la distruzione spietata. Aspirando freddamente e instancabilmente a questo scopo, deve essere pronto a morire, e a distruggere con le proprie mani tutto ciò che ne ostacola la realizzazione”.
Eccetera eccetera. Era questo il tipo umano a cui facevo riferimento, pur non volendo metterla giù così dura come ’sti nichilisti (“La nostra missione è la distruzione terribile, totale, generale e spietata”, Наше дело – страшное, полное, повсеместное и беспощадное разрушение). Il problema è che anche la scelta dei termini non è neutrale: se, per tornare all’esempio di partenza, uno definisce “femminicidio” qualche cosa di diverso da un assassinio di massa all’interno di una faida mafiosa o da una serie di omicidi compiuti da un serial killer misogino, egli sta già dando un’implicta interpretazione dei fatti – connotata per giunta da un preciso orientamento ideologico, che vuole tutte le donne vittime di tutti gli uomini riuniti sotto l’egida del “patriarcato”.
Allo stesso modo, se l’etichetta incel già da principio delimitava eccessivamente il campo dei “maschi in eccesso” [excess men, li chiama Mary Harrington], adesso è diventata nel migliore dei casi un disfemismo; in sostanza, non è più possibile -se mai lo è stato- usarla in modo “neutrale”. Ormai, d’altro canto, le stesse comunità maschili (anche quelle italiane) stanno allargando lo spettro semantico dell’espressione con la speranza di trasformarla da semplice condizione a posizione ideologica dai contorni ben definiti. Forse era meglio prima, quando c’era ancora la speranza di “tirarsene fuori” semplicemente trovando una fidanzatina: ma non è accaduto, non accadrà mai. E allora restiamo incel ma cambiamo nome perché rompete troppo: saremo abreki, cioè sarò io solo un abrek contro tutti.