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Inchiesta canadese sulla strage nelle strutture per anziani: dolo o colpa?

Were conditions for high death rates at Care Homes created on purpose?
(Off Guardian, 26 maggio 2020)

La pandemia di COVID-19 ha sterminato gli anziani nelle case di riposo. È solo perché sono i più vulnerabili al virus? Oppure le residenze sanitarie hanno avuto qualche responsabilità nell’accaduto? O addirittura gli esperti e i burocrati del governo hanno creato le condizioni per la strage, tenendosi ben al riparo da ogni conseguenza?

Questo articolo dimostra come la terza ipotesi sia forse la più plausibile. Coloro i quali hanno creato le condizioni per la strage potrebbero non essere state del tutto consapevoli o aver ignorato le implicazioni delle loro scelte, ma è possibile che qualcuno sapesse a cosa si sarebbe andati incontro: dopotutto, dalla prospettiva di un governo senza alcun senso morale, il numero crescente di anziani è un grosso onere previdenziale a ogni livello, dalle pensioni all’assistenza sanitaria.

Ecco le tre condizioni che hanno favorito i decessi nelle case di cura:

1) Burocrati ed esperti hanno approntato definizioni estremamente generiche di “focolaio” di coronavirus: da questo ne è conseguita la presenza costante in ogni casa di riposo di un’infermiera o un medico pronto a obbedire ciecamente a ogni loro direttiva (tali individui sono presenti in qualsiasi ambito, ma in quello medico le loro azioni possono essere deliberate, letali e difficili da individuare).

2) Comitati ed esperti hanno elaborato linee guida per il “razionamento” delle cure ospedaliere, raccomandando di dare priorità ai giovani rispetto agli anziani, suggerendo come criterio l’aspettativa di vita del paziente qualora il trattamento avesse avuto successo. Inoltre, alcune linee guida hanno vietato il trasferimento in ospedale dei residenti nelle case di cura.

3) Sono state riscritte anche le regole per i servizi funebri, attraverso l’imposizione di nuove procedure che cambiano radicalmente il modo in cui i decessi nelle case di cura vengono registrati. Lo scopo dichiarato è la prevenzione del sovraccarico del personale medico e del sovraffollamento dei luoghi di conservazione dei corpi durante un’ondata di decessi da COVID-19.

Tra i vari cambiamenti radicali, segnaliamo anche i certificati di morte non più compilati dal personale delle strutture per anziani, ma dall’ufficio del medico legale, nonché il divieto di un esame post mortem approfondito.

Sullo sfondo, migliaia di complici nella sanità pubblica, nella politica, nel mondo mediatico ecc: una volta generato il panico da pandemia, per esempio, molti addetti alle case di cura hanno preferito licenziarsi, lasciando i pochi rimasti a far fronte a un compito più grande di loro.

Questo articolo si concentra su come siano state messe in atto le tre condizioni nella provincia dell’Ontario, in Canada. Una situazione simile si è probabilmente verificata negli Stati Uniti, in Europa e altrove. Un’intervista esclusiva con la figlia di una delle decine di persone che sono morte durante un focolaio in una casa di cura dell’Ontario illustra come le tre condizioni funzionino nella pratica.

All’inizio dell’epidemia nell’Ontario, non sono state elaborate definizioni formali di infezioni e focolai, almeno non pubblicamente. Tuttavia, alla fine di marzo, il Chief Medical Officer of Health per l’Ontario, David Williams, e il Chief Medical Officer of Health associato, Barbara Yaffe, hanno stilato un elenco sommario dei criteri durante i loro incontri quotidiani con la stampa: un focolaio viene dichiarato quando due o tre persone mostrano sintomi di infezione da nuovo coronavirus, anche senza l’effettuazione di test.

Dunque questi criteri inizialmente definivano “focolaio” come due persone nella stessa area di una struttura che sviluppano sintomi entro due giorni l’uno dall’altro (rendendo le loro infezioni “epidemiologicamente collegate”) e almeno una di esse risulta positiva all’RNA virale; o tre persone nella stessa area che sviluppano sintomi entro due giorni l’uno dall’altro.

Il 30 marzo il Ministero della Sanità dell’Ontario definisce nuove regole per l’identificazione e la gestione dei focolai nelle strutture per anziani. Il personale di tutte le case di cura in Ontario viene formato sulle nuove regole tramite seminari online due giorni dopo, il 1° aprile. Le nuove regole offrono una definizione di epidemia ancora più ampia: basta la presenza di una sola persona con un solo sintomo di un’infezione da SARS-CoV-2. Le epidemie sono confermate quando solo un residente o un membro del personale risultano positivi; successivamente, tutti i residenti nella casa di cura che mostrano sintomi di infezione da coronavirus sono considerati affetti da COVID-19.

Il documento non segnala però un elenco di sintomi: una scelta voluta come dichiarato dallo stesso dott. Williams, poiché “rintracciare i sintomi nel resto dei residenti nelle case di cura dopo che è stato identificato il caso iniziale è una sfida, in particolare per quanto riguarda gli anziani, dato che l’infezione potrebbe non provocare la febbre, oppure potrebbe non dar luogo a sintomi espliciti. Del resto qualsiasi mutamento nelle loro condizioni di salute potrebbe essere considerato un sintomo”.

E aggiunge ancora il capo della sanità regionale: “Non mi occupo dei falsi allarmi. In seguito all’adozione di criteri più ampi per identificare le epidemie, potremmo assistere a un aumento del loro numero, ma è solo perché vogliamo aumentare la sensibilità della gente. Ciò significa che il numero di focolai aumenterà perché abbiamo ampliato la definizione”.

Una settimana dopo, l’8 aprile, è stato pubblicato un aggiornamento della guida ai test provinciali. Comprendeva il seguente elenco di sintomi (la maggior parte dei quali non specifici): febbre, qualsiasi sintomo di malattia respiratoria acuta – tosse, fiato corto, mal di gola, naso che cola o starnuti, congestione nasale, voce rauca, difficoltà a deglutire – e polmonite. Il documento elencava inoltre diversi sintomi “atipici” ma che “dovrebbero essere tenuti in considerazione, in particolare nelle persone di età superiore ai 65 anni”: affaticamento, malesseri inspiegabili, stato mentale alterato e disattenzione (delirio), peggioramento delle condizioni croniche, problemi digestivi (nausea, vomito, diarrea, dolore addominale), brividi, mal di testa, tachicardia, diminuzione della pressione sanguigna, ipossia e letargia.

Quindi il 22 aprile l’Ontario ha prodotto le prime linee guida per lo screening nelle case di cura. È sostanzialmente simile al documento dell’8 aprile, tranne per il fatto che due o più sintomi elencati (per esempio mal di gola, naso che cola e starnuti, naso tappato, diarrea) devono essere presenti affinché una persona sia considerata positiva.

Il 2 maggio vengono emanate nuove linee guide ai test e allo screening. Entrambi i documenti ammettono che se una persona ha solo un naso che cola o tappato, “si dovrebbe prendere in considerazione altre cause, come allergie stagionali o raffreddore”. Tuttavia, all’elenco dei sintomi ne vengono aggiunti altri tre non specifici: una diminuzione del senso del gusto, dolore addominale e congiuntivite.

Definizioni troppo vaghe di sintomi e focolai comportano importanti conseguenze, in particolare in combinazione con altre regole stabilite all’inizio dell’epidemia. In primo luogo in Ontario, in ogni struttura con un focolaio, ogni residente con un solo sintomo è definito come un caso “probabile” di Covid. Questo vale anche se costoro hanno avuto un risultato dal test incerto o negativo, o addirittura non sono stati testati affatto.

In secondo luogo, la causa di morte di chiunque fosse stato diagnosticato con un’infezione da SARS-CoV-2 è registrata come decesso da coronavirus. Questo è un diktat dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed è stato seguito in tutto l’Occidente.

In terzo luogo, i decessi attribuiti a COVID-19 sono considerati “naturali” dalle nuove regole elaborate il 9 aprile: in tutti i casi, tranne in un numero estremamente limitato, i decessi naturali sono esenti da ulteriori indagini post mortem (negli ultimi 30 anni tale tipo di indagini sono diventati rare, ma eliminarle quasi completamente è un altro conto).

Nel loro insieme, questo potrebbe spiegare ciò che ha passato la figlia di una donna deceduta insieme a decine di altri anziani durante un focolaio COVID-19 in una casa di cura dell’Ontario. La figlia ha concesso a “Off Guardian” un’intervista esclusiva il 13 maggio. Diane Plaxton (uno pseudonimo, per evitare ripercussioni) racconta di aver ricevuto il 1° aprile una telefonata scioccante e inaspettata dalla casa di cura di sua madre: “Sua madre sta peggiorando, continua ad avere diarrea, sulla sua cartella c’è un DNR [“ordine di non riaminare”] e noi non mandiamo nessuno in ospedale, ma possiamo sottoporla a cure palliative”.

Diane era sbalordita: sapeva che la diarrea di sua madre era causata da medicinali che aveva dovuto assumere per circa nove giorni, dopo che le era stata diagnosticata un’ostruzione intestinale. Ha provato a suggerire all’infermiera che forse sarebbe bastato reidratarla: ma lei ha rifiutato, affermando con un tono freddo e indifferente che ciò “avrebbe solo prolungato l’inevitabile”. L’infermiera non ha mai pronunciato la parola COVID-19, né riferito alla signora che quel giorno era stato identificato un focolaio nella casa di cura. Non ha nemmeno menzionato il fatto che il 30 marzo la provincia avesse emanato nuove direttive sulle infezioni e focolai di coronavirus, comunicate a tutto il personale tramite seminari virtuali due giorni dopo.

Pertanto, l’infermiera avrebbe potuto conformarsi legittimamente alle nuove regole diagnosticando alla madre di Plaxton un’infezione da coronavirus basata sulla sua sola diarrea, senza peraltro dover informare la figlia. Inoltre, poiché il trasferimento in ospedale non era consentito e poiché il COVID-19 è considerato molto spesso fatale negli anziani, questo potrebbe essere il motivo per cui l’infermiera ha tentato di convincere la Plaxton ad acconsentire alle cure palliative per la madre.

La Plaxton ha poi parlato con l’infermiera che si era presa direttamente cura di sua madre, una persona più disponibile che ha convenuto con lei che le cure palliative non fossero appropriate, accettando di sospendere la terapia per la pulizia dell’intestino e farla mangiare e bere. Nei giorni seguenti questo “programma” ha funzionato e l’infermiera ha rassicurato Plaxton sui miglioramenti.

Ecco perché è arrivata come un pugno nello stomaco la telefonata del 10 aprile, in cui un’altra infermiera in preda al panico le diceva che la madre era in crisi respiratoria e che -ancora- la casa di cura non poteva trasferirla in ospedale. Perciò tornava a chiedere alla figlia la possibilità di somministrare a sua madre della morfina per facilitarne l’exitus (una dose abbastanza elevata rallenta la respirazione e accelera il decesso). Diane si è sentita mancare. Dopo aver sentito sua sorella hanno deciso di dare l’assenso, e tre ore dopo la loro madre era morta.

A metà marzo, non molto tempo prima della morte della madre della Plaxton, le linee guida per il “razionamento” dei trattamenti durante la pandemia hanno iniziato a essere emanate. Per esempio, il 21 marzo il National Institute for Clinical Excellence del Regno Unito ha divulgato le direttive basate su un “punteggio di fragilità” e sulle probabilità di morte tra le diverse fasce di età per polmonite e patologie cardiovascolari o respiratorie già in atto.

Il 23 marzo è stato pubblicato sul prestigioso “New England Journal of Medicine” lo studio Fair allocation of scarce medical resources in the time of Covid-19, nel quale si richiede di “aumentare il numero di pazienti da sottoporre al trattamento con una ragionevole aspettativa di vita”. È interessante osservare che l’autore principale del paper, Ezekiel Emmanuel, è un oncologo e docente di bioetica presso il Center for American Progress, secondo un’indagine del 2011 finanziato da decine di multinazionali come Boeing e Walmart. L’ex generale Wesley Clark e il vicepresidente esecutivo della Blackstone Henry James sono tra i membri del comitato consultivo dell’organizzazione.

Il 27 marzo, l’altrettanto influente “Journal of American Medical Association” (JAMA) ha pubblicato A framework for rationing ventilators and critical-care beds during the COVID-19 pandemic, una ricerca in cui si suggerisce di “dare la priorità ai pazienti più giovani, non secondo considerazioni sulla loro utilità sociale, ma perché non hanno ancora avuto l’opportunità di attraversare le varie fasi della vita”.

L’Ontario ha stilato le linee guida per il razionamento delle cure ospedaliere il 28 marzo, anche se ad oggi il governo non ha reso pubblico il protocollo. A quella data l’idea che gli ospedali venissero “preso d’assalto” non era considerata una possibilità realistica. Il Toronto Star ha ottenuto una copia del documento di triaging dell’Ontario e ha riportato il 29 marzo che “secondo il protocollo di triage, anche i pazienti a lungo termine che soddisfano criteri specifici non saranno più trasferiti negli ospedali”.

Quindi, il 10 aprile, la Canadian Medical Association ha adottato tutte le raccomandazioni del dott. Ezekiel dal “New England Journal of Medicine” e ha consigliato ai medici canadesi di seguirle, sostenendo che la situazione attuale, sfortunatamente, non lasciava tempo agli esperti canadesi di elaborare le proprie linee guida.

Questo è tendenzioso: la sanità e gli studiosi canadesi hanno accesso alle stesse informazioni degli altri Paesi; inoltre molti di essi hanno avuto un’esperienza clinica diretta con un parente stretto del nuovo coronavirus, il SARS-CoV, nel 2003. In effetti, nel 2006 quattro canadesi avevano già stilato un protocollo etico sulle decisioni da prendere durante una pandemia basato proprio sull’esperienza con la SARS. Notiamo che all’epoca non era stata fatta menzione dell’età come criterio per la valutazione del trattamento.

Il 17 aprile il governo federale canadese ha reso pubbliche le direttive per guidare i medici nel razionamento delle risorse sanitarie durante l’epidemia di SARS-CoV-2. A differenza di altre linee guida emanate nello stesso periodo, queste non sono state accompagnate da un comunicato stampa, il che ha lasciato l’opinione pubblica indifferente. Il documento enfatizza però il razionamento in base all’età. Inoltre scoraggia esplicitamente il trasferimento negli ospedali dei residenti nelle case di cura: “Le strutture di assistenza a lungo termine (LTC) e i servizi di assistenza a domicilio saranno incoraggiati ad assistere i pazienti COVID-19 e potrebbe anche essere richiesto loro di prendersi cura di altri pazienti non COVID-19 per aiutare ad alleviare la pressione sugli ospedali”.

Questo è sottolineato in un altro passo nel documento: “Se il COVID-19 si diffonde nei residenti delle case di cura, costoro dovrebbero essere curati, se possibile, all’interno delle strutture, per preservare l’efficienza delle strutture ospedaliere”.

Il divieto di trasferimento in ospedale restringe drasticamente le opzioni terapeutiche per i residenti nelle strutture per anziani. Ci sono stati trasferimenti di residenti in case di cura negli ospedali in Canada durante la crisi COVID-19, ma fino a poco tempo fa erano di gran lunga l’eccezione. Invece, a partire da metà marzo come parte del programma per “far spazio” a un possibile aumento di pazienti COVID-19, migliaia di anziani sono stati viceversa trasferiti dagli ospedali alle case di cura. Ciò ha probabilmente influito sul numero delle vittime: più di un giornalista ha paragonato le case di cura alla nave da crociera Diamond Princess, cioè “incubatrici di virus con persone intrappolate all’interno”. Tutto ciò potrebbe spiegare perché gli infermieri della casa di cura hanno detto a Plaxton che sua madre non poteva essere trasferita in ospedale.

Il fenomeno si è verificato in altre strutture: la direttrice della Pinecrest Nursing Home di Bobcaygeon (sempre nell’Ontario), Michelle Snarr, ha energicamente consigliato ai familiari dei residenti di non prendere nemmeno in considerazione il trasferimento in ospedale. La dottoressa ha inviato una lettera alle famiglie sollevando i timori di sofferenze e possibili decessi qualora gli anziani fossero stati sottoposti alla ventilazione artificiale, confermando le sue dichiarazioni in un’intervista televisiva del 30 marzo:

“Quando è stato individuato il primo caso di covid nella nostra casa di cura, sapevamo che sarebbe stato come un incendio. […] Il motivo per cui ho inviato l’e-mail è stato quello di avvisare i parenti che ci trovavamo in circostanze straordinarie e che non avremmo potuto mandare i loro cari all’ospedale, pur sapendo che tanti si sarebbero ammalati e che l’unico modo per salvare una persona dal covid è un ventilatore. Ma attaccare una persona anziana e fragile a un ventilatore ci sembrava crudele”.

L’ultimo decesso attribuita a COVID-19 a Pinecrest è avvenuta l’8 aprile; da allora, 29 residenti su 65 sono morti: “Non ho mai assistito a quattro decessi in un giorno nelle case di cura in cui ho lavorato”, ha affermato il dott. Stephen Oldridge, uno dei medici di Bobcaygeon al Globe and Mail il 29 marzo. “Ti senti impotente. Perché non puoi fare altro che somministrare morfina e far sentire gli ospiti a proprio agio [prima del decesso]”.

Il dottor Oldridge ha espresso le stesse considerazioni alla CBC il 1° aprile: “Non esiste un vaccino, non esiste un trattamento efficace oltre alle cure palliative per queste persone, e ovviamente non esiste una cura. Quindi, quando l’infezione colpisce i polmoni degli anziani, non possiamo far altro che metterli a proprio agio [make them comfortable]”.

Altre inchieste indicano che alle famiglie dei residenti nelle case di cura in Canada è stata negata la possibilità di trasferimento in ospedale durante la pandemia, nonostante i loro parenti fossero relativamente giovani, non sottoposti al DNR [“ordine di non rianimare”] e sia loro che le loro famiglie avessero esplicitamente richiesto il trasferimento. Invece, sono stati messi sotto pressione per dichiararli “non rianimabili”. Questo è accaduto anche nel Regno Unito.

Hugh Scher, avvocato di Toronto che si è occupato di celebri cause sul “fine vita”, si è opposto fermamente a questo protocollo:

“L’idea che i direttori delle casa di cura siano autorizzati a dire ai residenti e alle loro famiglie che non possono o non dovrebbero essere trasferiti in ospedale se hanno bisogno di cure per il coronavirus o altro, è inaccettabile. Sfortunatamente ora si preme per dire che tanto la nonna ha già 95 anni e dunque mandarla in ospedale per tosse o raffreddore non migliorerà le sue condizioni. Meglio lasciarla morire”.

Il 9 aprile il Chief Coroner dell’Ontario, dott. Dirk Huyer, ha stilato le regole per una “risposta accelerata” alla gestione dei corpi delle vittime nelle case di cura e negli ospedali. L’obiettivo dichiarato è prevenire la diffusione dell’infezione, evitare il sovraccarico di lavoro del personale e il sovraffollamento di obitori e aree di deposito dei corpi nelle case di cura in caso di un aumento delle morti durante la pandemia.

Le nuove procedure sono state decise congiuntamente dall’ufficio del dottor Huyer, dal Ministero del governo e dalla Bereavement Authority dell’Ontario (che si occupa della regolamentazione dei servizi funerari per la provincia): si tratta di un drastico cambiamento nel modo in cui vengono gestiti i decessi nella provincia. Eppure sono state approvate in tutta fretta solo in base ai modelli matematici e previsioni che poi non si sono verificate (come la mancanza di spazio per i corpi).

Le nuove procedure sono entrate in vigore immediatamente il 9 aprile. Poi, nei tre giorni successivi (il lungo weekend di Pasqua), il dottor Huyer e la Bereavement Authority dell’Ontario hanno organizzato seminari virtuali per il personale degli ospedali e delle case di cura in tutta la provincia. “Abbiamo fatto le cose in fretta perché è una situazione completamente inedita che coinvolge migliaia di persone” ha dichiarato il dott. Huyer al Toronto Star.

Come stabilito dalle nuove regole, l’ufficio del medico legale ora è autorizzato a compilare i certificati di morte di ogni persona che muore in una struttura per anziani, e anche alcuni certificati di chi muore in ospedale. Fino al 9 aprile, e per una buona ragione, i certificati di morte in Ontario venivano compilati da medici o infermieri che si prendevano cura delle persone prima che morissero. Inoltre, per le nuove regole i decessi attribuiti a COVID-19 sono considerati “naturali” e tutte le morti “naturali” sono praticamente esenti da ulteriori indagini post mortem.

Il dottor Huyer ha dichiarato in un’intervista telefonica: “Tutte queste cose sono state aggiunte in corso d’opera per consentire un approccio immediato ed efficiente, per essere in grado di garantire che i parenti procedano alla sepoltura o alla cremazione in modo tempestivo senza necessità di fornire loro altri spazi”.

Le regole dell’aprile 2020 stabiliscono anche che le famiglie devono contattare le pompe funebri entro un’ora dalla morte in ospedale ed entro tre ore dalla morte in casa di cura. I corpi devono essere portati via subito e poi cremati o sepolti il più rapidamente possibile.

Tutto ciò ha insospettito Diane Plaxton e l’ha portata a contattare i giornalisti, ai quali ha riferito appunto che l’infermiera che le aveva telefonato per comunicarle la morte della madre le aveva subito chiesto di contattare le pompe funebri per portare via il corpo: “È come se mi stessero chiedendo di portar fuori l’immondizia!”. Al trauma si aggiunse la scoperta, quattro giorni dopo, che come causa di morte di sua madre fosse stato indicato proprio il COVID-19. La donna crede invece che ciò che ha ucciso sua madre sia stata la combinazione di disidratazione e malattie croniche tra cui l’asma: la crisi respiratoria del 10 aprile potrebbe essere stata un attacco d’asma.

A complicare la situazione, il direttore delle pompe funebri le ha proibito di fare una foto del certificato di morte: le ha detto di richiederne copia al governo, anche se ci sarebbero voluto mesi. Tuttavia l’uomo era sconcertato per l’accaduto, nonché per le nuove disposizioni per la cremazione e la sepoltura volte ad accelerare tutti i processi: “Sto solo prendendo ordini dall’alto”, ha confessato alla donna. Questa è appunto la terza delle tre condizioni che possono causare alti tassi di mortalità nelle case di cura.

Il 19 maggio il Presidente dell’Ontario ha annunciato una commissione d’inchiesta sul numero eccessivo di decessi nelle strutture per anziani. Sappiamo già che sarà altamente improbabile che l’inchiesta tocchi i temi trattati in questo articolo. Anzi, è più probabile che gli unici ritenuti responsabili, nel remoto caso che qualcosa venga alla luce, siano coloro che hanno applicato le direttive piuttosto che quelli che le hanno stilate.

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