Nonostante i rapporti tra Putin e la comunità ebraica nazionale (capeggiata dal rabbino Berel Lazar) siano da sempre eccellenti, sembra che nell’ultimo periodo il “filosemitismo” del Presidente russo sia cresciuto in modo esponenziale: risale a pochi giorni fa il plauso alle associazioni ebraiche internazionali per aver contribuito alla stabilità interna del Paese, rivolto direttamente al rappresentante del World Jewish Congress, Ronald Lauder (Putin thanks Jewish organizations…, “Interfax”, 19 aprile 2016). Il presidente ha anche stigmatizzato l’ascesa dell’antisemitismo in Europa occidentale, contrapponendolo alla situazione russa che invece registra un livello minimo di sentimento antiebraico (confermato dalle stesse parole di Lauder).
Dal canto loro, i cittadini israeliani hanno identificato in Putin “l’uomo dell’anno” del 2015 (secondo un sondaggio, a dire il vero un po’ improvvisato, del Jerusalem Post), mentre un esponente della destra come Yitzhak Hanegbi (più volte ex-ministro, supervisore del Mossad, oggi presidente della commissione Esteri della Knesset) ha proclamato la sua ammirazione per il “modello geniale e brillante” rappresentato dal leader di Mosca (cfr. “Corriere della Sera”, 30 marzo 2016).
In aggiunta, uno dei leader dell’opposizione siriana, Riyad Farid Hijab che per un breve periodo ha anche coperto la carica di primo ministro, ha accusato Assad di aver ottenuto un appoggio indiretto da Israele in cambio della cessione formale delle alture del Golan, assicurandosi anche un sostegno logistico, come dimostrerebbe l’utilizzo di droni israeliani per raccogliere informazioni sui ribelli.
Al di là delle congiunture estemporanee della politica internazionale, sta emergendo uno scenario che gli antisionisti più viscerali hanno sempre rifiutato di prendere in considerazione: nel caso Israele smettesse di essere l’avamposto occidentale in Medio Oriente, come muterebbe l’atteggiamento di quella galassia che si appella all’antiamericanismo, all’anti-imperialismo eccetera? Diverrebbe necessario accantonare la questione palestinese, o almeno rassegnarsi all’idea che qualsiasi scontro etnico-religioso possa trasformarsi in “questione” sui cui puntare i riflettori, pena il rischio di essere tacciati di antisemitismo senza più nessuna attenuante a cui appigliarsi?
La situazione è resa ancor più complessa dal fatto che considerare Israele come una nazione tra le altre comporterebbe vantaggi e svantaggi per entrambi gli schieramenti: in generale si dissolverebbero le nebbie messianiche attorno alle interpretazioni sul destino del popolo ebraico, percepito come una sorta di “orologio cosmico” atto a calcolare la fine dei tempi.
Se Israele è già nazione, ciò significa che, violando l’interdetto divino, ha avuto il suo re. Poco male, se non fosse che una sfilza di nuovi profeti (Rosenzweig, Benjamin, Bloch, Löwith, Taubes) ha messo in guardia (a volte inconsapevolmente) sulla pericolosità della secolarizzazione di temi sacri nella modernità.
Come dimostrazione basti lo zelo con cui, anche a livello legislativo, gli alleati di Israele stanno pianificando l’introduzione del reato di blasfemia affinché nessuno osi bestemmiare la santità del popolo eletto con impia verba come “apartheid” o “pulizia etnica”. Del resto quando le speranze messianiche si incanalano nella politica ordinaria, il minimo che può accadere è che un governante mediocre venga appunto scambiato per un Māšîăḥ (non è tuttavia solo un problema israeliano).
Il riconoscimento di Israele quale nazione tra le altre avrebbe in realtà conseguenze soprattutto per gli ebrei, poiché potrebbe avverarsi il presentimento che ebbe David Grossman durante la guerra di Gaza del 2009:
«Ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall’esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore».
In tal modo però le comunità ebraiche potrebbero slegare il loro destino dalla patria eletta e concentrarsi sulle proprie responsabilità nazionali: se non altro ci risparmieremmo l’imbarazzante strumentalizzazione della Shoah che, almeno in Italia, si verifica a ogni “Giornata della Memoria”.
Quest’anno, per esempio, è stato particolarmente imbarazzante il modo in cui i rappresentanti dell’ebraismo italiano hanno sfruttato la celebrazione per sabotare la ripresa delle relazioni italo-iraniane. Se Israele fosse già nazione tra le altre, l’unica rimostranza accettabile e legittimata degli ebrei italiani riguarderebbe la sicurezza e la libertà della minoranza israelita persiana, indipendentemente dalle relazioni diplomatiche intrattenute da Israele.
Può sembrare una provocazione, ma non è forse questo l’atteggiamento che le comunità semitiche assumono nei confronti delle altre minoranze, presupponendo una “solidarietà di destino” persino con gruppi che invece si mostrano apertamente ostili nei loro riguardi? Esiste, anche da questa prospettiva, una “questione ebraica”, proprio perché risulta impossibile un approccio univoco da parte israelita su problemi come immigrazione, integrazione e multiculturalismo (per un approfondimento mi permetto di rimandare al mio La questione antirazziale).
Diverso è il discorso per gli antisionisti, che da tutto questo avranno probabilmente solo qualche fastidio. In fondo la loro attività politica si riduce soprattutto ad attivismo da divano (a parte qualche rara ed eroica eccezione). Per giustificare il ruolo sociale di “antagonisti” dovranno semplicemente rivestire coi panni del cattivo un altro fantoccio: in parte sta già accadendo, da “sinistra” con la demonizzazione della Turchia e da “destra” con le fantasie malate di una “soluzione sionista” sperimentabile a livello europeo. In ogni caso, Nihil sub sole novum…