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Israele ha tentato di incastrare gli americani in Siria

Come Trump ha contrastato i tentativi israeliani
di mantenere gli Stati Uniti in Siria

(G. Porter, “The American Conservative”, 14 gennaio 2019)

Il Pentagono non è stato l’unico partito a far pressione su Donald Trump per costringerlo a mantenere le truppe in Siria. È infatti emerso che il governo israeliano e i suoi sostenitori a Washington hanno lavorato alacremente per obbligare l’amministrazione Trump a usare la propria presenza militare a sostegno una campagna israeliana di attacchi aerei volta a scatenare una guerra contro l’Iran.

La strategia israeliana mirava a dividere la Russia dall’Iran e quindi a fare pressione su Teheran per ritirare le sue truppe dalla Siria. Lo scorso autunno un think tank filoisraeliano è quasi riuscito a far approvare a Trump un piano del genere, nonostante non fosse condivisa da alcun funzionario del Pentagono.

La storia dell’ultimo tentativo della lobby israeliana di incastrare la politica americana, raccontata qui per la prima volta, rivela quanto Israele sia riuscito a penetrare nell’amministrazione Trump prima che il Presidente intervenisse personalmente.

All’inizio del 2018, Israele ha intensificato la frequenza degli attacchi aerei contro obiettivi iraniani in Siria. La logica originaria dei bombardamenti era quella di impedire all’Iran di trasportare missili tecnologicamente avanzati a Hezbollah in Libano attraverso la Siria (sebbene l’intelligence militare israeliana ha ammesso quasi un decennio fa che Hezbollah ha già ricevuto centinaia di quelle armi). Nel corso dell’anno l’esercito israeliano aveva però aggiunto un’altra ragione agli attacchi: costringere l’Iran a rinunciare del tutto alla sua presenza militare in Siria, nonostante Israele non abbia mai portato alcuna prova di basi militari iraniane permanenti nel Paese.

Per perseguire questo obiettivo, gli israeliani hanno adottato una strategia ambiziosa volta a dare l’impressione che in Siria potesse scoppiare un conflitto tra Israele e l’Iran se i russi non avessero costretto Teheran alla ritirata. Il 18 aprile, Dror Michman, un membro dello staff di Netanyahu in congedo come professore presso il Brookings Institute, ha rivelato per la prima volta tale strategia al pubblico. Michman ha spiegato che Israele ha intensificato i suoi attacchi in Siria per provocare reazioni militari iraniane.

Michman ha riconosciuto che la possibilità israeliana di condurre bombardamenti in Siria potrebbe cessare nell’istante in cui la Russia fornisse il proprio sistema di difesa aerea al governo siriano (un progetto che sarebbe stato completata a fine novembre 2018). Le sue affermazioni avrebbero dovuto incitare Washington a mobilitarsi per Israele.

Il think tank su cui Israele conta da sempre per influenzare la politica degli Stati Uniti – il Washington Institute for Near East Policy (WINEP), fondato dall’American Israel Public Affairs Committee nel 1985 – stava già lavorando sulla questione. Il 13 aprile, una proposta del WINEP da parte dell’ambasciatore James F. Jeffrey accolse astutamente l’idea di ritirare le truppe americane, anche se non tutte: Jeffrey suggerì agli Stati Uniti di ridurre la maggior parte delle forze terrestri in Siria da nove a dodici mesi, e poi di affidarsi principalmente alla forza aerea per porre in atto una “prova di forza” allo scopo di “plasmare le decisioni russe e iraniane”.

A luglio la proposta iniziale di Jeffrey è stata elaborata in un documento più esteso su una Nuova politica americana in Siria, firmato da tutta la leadership del WINEP. In esso si sollecitano gli Stati Uniti a “sostenere gli sforzi israeliani, compresi attacchi su siti militari iraniani, per creare divisioni tra Iran, Russia e Assad”. Il documento descrive la politica israeliana orientata a “porre la Russia di fronte al dilemma di frenare l’aggressività iraniana o affrontare una possibile guerra tra Israele, Iran e Hezbollah sul territorio siriano”.

Gli autori hanno evidenziato la capacità degli Stati Uniti di imporre “restrizioni alle operazioni dell’Iran” in Siria, “mantenendo un piccolo numero di truppe statunitensi e introducendo una no-fly & no-drive zone sul territorio settentrionale attualmente controllato dagli Stati Uniti e dalla Turchia”.

Ad agosto, il Segretario di Stato Mike Pompeo, favorevole alla linea di Jeffrey, ha messo assieme un piccolo gruppo di politici concordi con la stessa strategia aggressiva in Siria e ha nominato Jeffrey del WINEP come rappresentante speciale in Siria. Per il “Washington Post”, Pompeo aveva incaricato Jeffrey di creare un “progetto coerente” per la politica americana in Siria.

Jeffrey era quindi già pronto a dichiarare in un’intervista di inizio settembre che “la nuova politica è di non ritirarci più entro la fine dell’anno”, ma di mantenere la presenza di truppe per “assicurare una dipartita iraniana” dalla Siria così come la “sconfitta definitiva” dell’Isis.

A metà ottobre, “NBC News” riferiva che questa nuova iniziativa sarebbe stata “messa a punto in poche settimane”. Tuttavia essa non è mai stata formalmente approvata da Trump. La reporter della NBC Carol Lee osservò che i critici del piano (identificati genericamente come “funzionari della Difesa”) temevano che esso avrebbe potuto rappresentare “il primo passo per costringere l’Iran al confitto”. Secondo l’articolo, coloro i quali avevano sviluppato tale linea avrebbero negato che fosse quella la loro intenzione. Eppure questo era proprio l’obiettivo che Jeffrey e i suoi coautori WINEP avevano identificato nel loro documento di luglio sulla strategia israeliana più ampia a cui la politica americana avrebbe dovuto conformarsi.

Mentre il contingente filo-israeliano nell’amministrazione attendeva l’approvazione della nuova politica, l’esercito israeliano stava aumentando le provocazioni in Siria. Il 18 settembre, i jet israeliani effettuavano attacchi missilistici nei pressi di una base militare russa nella provincia di Latakia (roccaforte alawita del governo di Assad nel nord-ovest del Paese), portando i missili antiaerei siriani a colpire un aereo militare russo [dietro ai quali si erano “nascosti”], uccidendo 15 persone.

Il 24 settembre la Russia ha risposto a tale attacco annunciando la vendita di sistemi di difesa antiaerea S-300 al governo siriano, un’azione che aveva minacciato di intraprendere da tempo. Questa è stata una vera e propria sfida alla strategia israeliana. Il più vecchio alleato di Israele nell’amministrazione Trump, il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, ha reagito immediatamente dichiarando: “Non ce ne andremo fintanto che le truppe iraniane saranno fuori dai confini iraniani, e questo include i loro alleati e le loro milizie”.

In un rapporto del Dipartimento di Stato del 3 dicembre, Jeffrey ha energicamente ribadito la posizione di Bolton, affermando che l’esercito americano sarebbe rimasto in Siria “fino a quando le nostre condizioni – la sconfitta definitiva dell’Isis, il ritiro di tutte le forze comandate dall’Iran e una irreversibile transizione politica – saranno adempiute”.

I falchi filo-israeliani erano sul filo del rasoio: per ottenere l’approvazione di questa linea in politica estera, Bolton aveva rimpiazzato le riunioni formali con conversazioni private, rafforzando il proprio potere e patrocinando una nuova strategia in linea con quella israeliana.

Tuttavia, Trump ha informato Mattis, Pompeo e Bolton della sua decisione di ritirarsi dalla Siria lunedì 17 dicembre, e i tre funzionari hanno tentato per due giorni di far cambiare idea a Trump, prima di arrendersi martedì notte. Netanyahu stesso ha discusso con Trump una volta e Pompeo due volte prima dell’annuncio del 19 dicembre.

Quindi Trump sapeva che nell’andare avanti con il piano di ritiro, avrebbe affrontato l’ira non solo dell’élite della sicurezza nazionale, ma anche di Israele e dei suoi sostenitori. La decisione di tirare dritto nonostante tutto rispecchia un cambiamento fondamentale dei suoi obiettivi politici.

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