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Israele senza confini: l’ipocrisia delle comunità ebraiche sull’immigrazione

Il video qui sopra mette a confronto in maniera impietosa il modo in cui gli ebrei trattano il problema dell’immigrazione a seconda che esso riguardi Israele o l’Europa: ovviamente l’intento è ultra-polemico, ma lasciando da parte la cornice e concentrandosi sui contenuti, esso simboleggia alla perfezione l’ipocrisia sia dello Stato ebraico che delle comunità presenti nei rispettivi Paesi.

Sappiamo che, nonostante in Israele la dialettica politica sia molto vivace (anche quando si accostano due mondi che hanno poco a che fare tra loro, come una organizzazione umanitaria ebraica insediatasi a Lesbo e i falchi del Likud), è un dato di fatto che in questi anni i rappresentati delle comunità ebraica in Europa abbiano parlato con una sola voce, predicando i “confini aperti” per qualsiasi nazione al di fuori di Israele.

Per fare un esempio, è parsa particolarmente di cattivo gusto la “shoahizzazione” del fenomeno migratorio (con la parallela reductio ad Hitlerum di chiunque avesse un’opinione contraria), soprattutto quando al cospetto di un aumento esponenziale degli episodi di antisemitismo messo in atto da immigrati di origine araba, rabbini capo e politici israeliani (Netanyahu in testa) hanno colto l’occasione per stigmatizzare il “lassismo” dei nostri governi. Se però nelle principali capitali europee si viene aggrediti per una kippah, non è soltanto colpa del “buonismo” di Edom, quando per decenni le organizzazioni ebraiche, specialmente in Francia, hanno continuato a fare del terrorismo psicologico sul tema.

Tale atteggiamento è peraltro riemerso recentemente nei confronti del cosiddetto muslim ban di Donald Trump: l’ebraismo americano ha dato di sé uno spettacolo davvero imbarazzante, con manifestazioni di isterismo che col senno di poi (ma pure quello di “allora”) non avevano alcuna giustificazione reale. D’altronde il Presidente americano, come ogni suo predecessore, non ha fatto molto caso agli “accorati appelli”; al contrario, da quando l’immigrazione ha iniziato a interessare in modo sempre più importante il Vecchio Continente, i governanti europei di destra come di sinistra si sono sempre preoccupati di non incorrere in una temutissima “scomunica” da parte di rabbini e filantropi, che non hanno mai abbandonato il sempre più frusto paragone tra immigrati arabi e sopravvissuti ai campi del concentramento, nemmeno quando la situazione è precipitata, trasformando le periferie parigine e berlinesi in un inferno sia per ebrei che per goyim.

Considerato quest’ultimo punto, a qualche complottista antisemita (non a me, quindi, perché non sono complottista) è sorto il sospetto che, siccome la maggior parte di queste organizzazioni umanitarie sono finanziate dal Ministero degli Esteri israeliano, esistesse un “piano” per favorire l’immigrazione islamica in Europa e risolvere la crisi demografica dello Stato ebraico con una Aliyah di massa. Del resto, è la stessa Jewish Agency a porsi come compito principale quello di di “incoraggiare l’immigrazione in Israele“: le aggressioni quotidiane unite all’ondata di terrorismo sono stati obiettivamente il motore principale dell’esodo di questi anni (quasi interamente composto da ebrei francesi).

Tuttavia, non vogliamo dare adito a “cattivi pensieri”: semplicemente auspichiamo che prima o poi finisca questo insopportabile doppio standard da parte delle comunità ebraiche e che anche le altre nazioni possano tornare a fare ciò che in Israele è considerato assolutamente normale. Amen.

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