Italexit. La prima volta che l’Italia uscì dall’euro

Rileggere la storia degli ultimi trent’anni dalla prospettiva attuale non sembra un esercizio fine a se stesso, poiché anche solo sfogliando le rassegne stampa dei primi anni ’90 ci si rende conto che i termini dello scontro sono praticamente rimasti gli stessi.

Da una parte c’è infatti la “politica”, che tenta di mediare interessi contrapposti senza però dissociarsi totalmente dal mandato democratico (non fosse per il “deterrente” rappresentato dalle libere elezioni), dall’altra invece una zona grigia che pretende l’austerità più completa e massacrante possibile, magari attraverso una puntuale “manovra lacrime e sangue” la quale tradizionalmente comporta il «taglio brutale e immediato alla spesa che sostiene i consumi», in particolare delle «spese pubbliche eccessive che alimentano il parassitismo», come «i sistemi sanitario e pensionistico».

A esprimere tali giudizi (auspicando l’assoluta mancanza di «riguardo per i diritti acquisiti»), è un anonimo cronista di “Repubblica” che l’11 settembre 1992 riportava i desiderata dei tecnocrati dell’epoca verso il primo governo Amato, con la stessa enfasi e le stesse metafore (a quanto pare mai passate di moda) che ritroviamo sulla stampa di oggi:

«Tutti sanno che le riserve valutarie italiane si sono ridotte al lumicino […]. Contemporaneamente, ossia in un anno, i debiti netti delle banche verso l’estero sono aumentati da 144,3 a 192,6 bilioni e difficilmente, data la pessima fama ormai acquisita dall’Italia all’estero, potranno aumentare ancora di molto.
[…] [È necessario un] taglio brutale e immediato alla spesa che sostiene i consumi. La calura, l’impreparazione, l’emozione ed il protagonismo hanno dato la stura ad una serie di ipotesi monetarie, quali “Via il marco dallo Sme”, quasi che i guai della lira non fossero endogeni. Per rifiutare la medicina amara si distrae l’opinione pubblica indirizzandola contro i sergenti di ferro della Bundesbank. E gli stranieri si vendicano indicandoci come un “paese di prepensionati” che vuol far pagare all’Europa i suoi sperperi sanitari. Non lasciamoci distrarre da queste diatribe, ma cerchiamo di sapere dove andremo a finire per prendere le necessarie precauzioni. Ai lettori diciamo: non sperate, sinché vedrete Amato lanciare appelli patetici agli italiani (anziché fustigare partiti, sindacati e parlamentari), sinché si griderà contro gli evasori fiscali e si ciancerà di lacrime e sangue per nuove imposte locali o centrali che incentiveranno soltanto gli istinti di rivolta e l’evasione stessa (data la pressione fiscale già superiore alla media europea). Forse non basta neppure vendere subito all’estero qualche partecipazione statale importante, come richiede Romiti».

Molti commentatori italiani e internazionali hanno evidenziato come il famigerato SME (Sistema Monetario Europeo) condivida inquietanti tratti in comune con l’attuale assetto valutario dell’eurozona, soprattutto nel modo in cui esso porta a seguire percorsi obbligati “nella buona e nella cattiva sorte”, ovvero non solo nei periodi di crisi, ma anche in quelli di “vacche grasse”, allo scopo di proseguire con qualsiasi mezzo il cammino di integrazione europea: non è un caso che nel lontano 1990 persino un politico per certi versi “affidabile” come il caro vecchio Rino Formica annunciasse (anzi “promettesse”) la solita manovra “lacrime e sangue” (ça va sans dire) additando tra le cause il motivo della armonizzazione comunitaria:

«Una manovra a tutto campo, a colpi di nuove tasse e di riordino delle imposte esistenti. Marcatura stretta, a uomo, sugli evasori fiscali. Come il trainer di una squadra di calcio, Rino Formica, ministro delle Finanze, ha scelto il gioco aggressivo, illustrando ai leader di Cgil, Cisl e Uil i suoi progetti per rimettere in sesto il Fisco iniquo a sgangherato, che tartassa i lavoratori dipendenti e risparmia le imprese. Formica promette lacrime e sangue, con interventi che dovranno portare nelle casse dello Stato almeno 40 mila miliardi in più nel 1993
[…] Il governo colpirà ovunque: si va dalla tassazione dei capital gains a quella dei pedaggi autostradali e delle carte di credito, dalla norma antielusione alla riduzione della deducibilità sui contratti di leasing immobiliare, da un regime più severo sulle fusioni aziendali alla rivalutazione dei beni d’impresa. […] Formica non si fa molte illusioni sui tagli alla spesa: il grosso dello sforzo lo dovranno sostenere i contribuenti. Nuove tasse per i cittadini, dunque.
[…] Anche per l’Iva si prospettano parecchie modifiche, legate per altro all’armonizzazione comunitaria. Dovrebbe essere introdotta, al posto dell’aliquota del 4%, un’ aliquota sociale più bassa per pochi prodotti di prima necessità, e tutta la manovra dovrebbe essere armonizzata con quella della Cee elaborata da madame Scrivener. Il maggior gettito (9 mila miliardi, secondo una simulazione che tiene conto di un’aliquota di alcuni beni in aumento dal 4 al 9 o al 19%) dipende dal tipo di intesa che sarà raggiunta per sterilizzarne l’impatto sul costo della vita. […]» (Formica “vuole” 40mila miliardi, “Repubblica”, 13 giugno 1990).

Torniamo però al sofferto 1992: per l’Europa si aggira uno spettro, quello della svalutazione, che terrorizza l’alta finanza, la grande industria e la rampante tecnocrazia, le quali obbligano i loro giornali a descriverla come una “droga” (una “droga cattiva”, s’intende, perché gli stessi potentati nel frattempo vorrebbero legalizzare qualsiasi tipo di stupefacente, sul modello huxleyano che li entusiasma tanto).

I “capitani” d’Italia (Agnelli, Romiti, Orlando, Marzotto), nelle vesti di “Cavalieri dell’Apocalisse”, sono sul piede di guerra e premono sulla politica affinché la macelleria sociale si compia in nome del Summum bonum finanziario:

«[…] Avverte Gianni Agnelli: “Se non si utilizzerà il periodo di non svalutazione della lira (che speriamo sia lungo) per fare qualcosa, sarà un disastro”. A riempire di contenuti questo “qualcosa” ci pensa Luigi Abete. “Serve un decreto urgente di governabilità – dice il presidente della Confindustria – un provvedimento da approvare entro due settimane che crei subito le condizioni di un forte ribasso dei tassi d’interesse. Come? Tagliando e contenendo la spesa pubblica senza ricorrere a nuove entrate, anche a costo di gelare i consumi familiari; avviando la razionalizzazione di pensioni e sanità; privatizzando subito due o tre aziende pubbliche.
[…] Il clima, l’atmosfera che si respira nella grande sala del palazzone confindustriale che ospita imprenditori, banchieri, economisti, è da ultima spiaggia, da mobilitazione straordinaria, da “oro alla patria”. Espressione non solo metaforica: insieme alla proposta di un grande prestito internazionale in valuta per sbollentare gli spiriti indomiti della speculazione (fatta propria dalla stessa Confindustria), l’economista Mario Monti lancia un’idea che lì per lì lascia di stucco uditorio: “Abbiamo riserve auree importanti: impegniamone una parte, diamole in garanzia, così come fecero le autorità monetarie nel ’76 con la Bundesbank. Un segnale certamente meno pesante di una svalutazione subìta dalla Banca d’Italia”. […]
[Sempre secondo Monti] “può essere necessario intervenire con nuove entrate, per esempio con una sovraimposta Irpef da applicare subito, nel ’92, non sull’imposta pagata, ma sul reddito imponibile, e da replicare nel ’93 in caso di mancato introito di qualche gettito fiscale previsto”.
[…] Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confindustria, descrive [il pericolo di una recessione] come una realtà ormai molto vicina: “[…] Sbaglia chi crede di risolvere il problema con la svalutazione, che riduce la credibilità delle autorità e produce un rialzo dei tassi. Ma sbaglia anche chi pensa che la via della difesa del cambio affidata solo agli alti tassi d’interesse scongiurerà il deprezzamento della nostra valuta. Prima o poi, la recessione e il deficit pubblico saranno così pesanti da costringerci a svalutare”. Resta allora una sola strada, per gli industriali: un intervento massiccio e doloroso sulle spese, anche a costo di bloccare per un anno o anche più il potere d’acquisto delle famiglie. Certo, l’effetto sarà quello di ritardare la ripresa, ma non di pregiudicarla in futuro, come succederebbe se passasse la linea del non intervento o dei rattoppi graduali».
(Agnelli e Abete: Due settimane di tempo per evitare il disastro della svalutazione, “Repubblica”, 9 settembre 1992)

Spiace non aver avvisato il lettore ma, sì, tra le cronache di allora faceva già capolino un Mario Monti sornione («rettore dell’Università Bocconi e uno degli economisti più autorevoli del nostro Paese»), che solo vent’anni dopo assaporerà l’ebbrezza di testare le sue affilatissime “tecniche” sul popolo italiano. Tanto per far capire che si tratta di un copione già scritto, riportiamo i giudizi del Fondo Monetario Internazionale allertato dai primi scricchioli dello SME (Terremoto nello SME, “Repubblica”, 17 settembre 1992)

«Per il Fondo Monetario Internazionale l’Italia deve prendere provvedimenti urgenti e molto rapidi in materia di politica economica, oppure sarà travolta da un’ondata inflattiva senza precedenti. Secondo gli esperti dell’Fmi, che ieri hanno dato una conferenza stampa a New York in vista dell’assemblea, il governo italiano non può più aspettare “neanche sei mesi, neanche tre mesi”, ma deve agire immediatamente, annunciando tagli alla spesa pubblica e un programma triennale di riduzione del deficit in percentuale rispetto al prodotto nazionale lordo. La svalutazione della lira potrà avere anche effetti positivi, afferma il capo del servizio studi del Fondo Monetario, Mussa, ma c’è il rischio che l’aumento delle retribuzioni nel settore pubblico possa ripercuotersi anche in quello privato, riaccendendo la fiammata inflazionistica. […]».

La “notte delle (lunghe?) monete” irrompe tuttavia come un fiume in piena, lasciando il “sistema” tecnico-mediatico-finanziario (ma in realtà al 100% politico) di cui sopra schiumante di rabbia. L’elenco degli “indignati” dalla svalutazione è lungo: si va dalla Radio Vaticana (seppur con un “granello di sale”: «Che la lira dovesse essere svalutata lo si sapeva da tempo, già prima della vacanza estiva. Come è allora possibile che una classe politica e dirigente già da prima dell’estate continuasse a ripetere che mai si sarebbe arrivati a una svalutazione sotto l’incalzare dell’ inflazione?»), al gotha del grigiume passato e odierno che ancora ci governa. In ordine di importanza, Franco Modigliani (“Italiani tartassati? Era ora!”, “Repubblica”, 27 settembre 1992):

«In Italia si spende troppo: la spesa pubblica è troppo elevata ed è diventata ormai da anni insopportabile, insostenibile. La soluzione è dunque una sola: ridurre il deficit senza intaccare gli investimenti. Quindi bisogna tagliare sanità e pensioni, settori nei quali, a parità di prestazioni con altri paesi, l’Italia spende cifre iperboliche. […] Gli italiani devono rientrare nella human race, devono diventare come tutti gli altri. […] Oggi la sanità in Italia è puro spreco.
[…] Si è arrivati al punto che la gente non si muove per andare a produrre ricchezza, perché è la ricchezza che va da loro. Tutti quei soldi hanno bloccato la mobilità del lavoro. Soprattutto, è inaccettabile il modo in cui sono stati distribuiti una gran parte dei sussidi, ai finti invalidi, per esempio. E comunque, ripeto, non ha alcuna giustificazione l’entità delle spese per la sanità e le pensioni.
[…] È stato messo in piedi uno stato sociale demagogico con elargizioni immotivate gestite da gente che non conosceva o non voleva conoscere i vincoli di bilancio. Soprattutto perché sarebbe stato il futuro a pagare. Ma il futuro è oggi, anzi ieri.
[…] Quanto è accaduto dimostra come sia difficile gestire i cambi fissi con situazioni economiche molto differenziate. L’unione monetaria sarà comunque di grandissimo aiuto per l’Italia quando i tempi saranno maturi”»;

 Beniamo Andretta:

«È un gran peccato che il giocattolo si sia rotto quando sindacati e imprese cominciavano a prenderlo sul serio e due terzi degli italiani si dichiaravano a favore di un cambio stabile. […] La stabilizzazione ora dovrà essere opera di virtù interne, non del blasone di appartenere ad un club. Le fatiche e i sacrifici dei francesi durante gli anni Ottanta non ci saranno risparmiati. Chi pensa di rinegoziare Maastricht in termini più elastici si fa delle illusioni. L’unica via aperta per l’unione monetaria europea è ormai la via tedesca»;

Mario Monti (non può mancare),

«È giustissimo discutere la politica macroeconomica tedesca, però bisogna essere consapevoli che non può esserci qualcosa di simile all’unità economica europea se non c’è un’accettazione della costituzione economica del paese dominante»,

ed Eugenio Scalfari,

«Sotto l’ombra della crisi monetaria emerge che questo paese, che ha vissuto al di sopra delle proprie risorse e ha sperperato a destra e a manca, è diventato più povero. Adesso, per le ragioni che avete esaminato, i nodi sono giunti al pettine e l’Italia è costretta a portare i libri in tribunale».

Dallo stesso pezzo da cui sono tratte le ultime tre citazioni (Sull’Europa scende la notte delle monete, “Repubblica”, 18 settembre 1992) riprendiamo l’attualissimo incipit:

«L’Europa delle monete è in crisi. Dopo settimane di turbolenze, giorni e giorni di battaglie a colpi di miliardi di marchi e di dollari ai “fixing” della maggiori piazze finanziarie del Vecchio Continente, il Sistema monetario europeo ha piegato le gambe sotto i colpi della speculazione. Lo spettro dell’Europa a due velocità, di un’Europa di serie A e l’altra di serie B, agitato per anni, si è materializzato in tutta la sua drammaticità. Sul terreno di battaglia restano i morti e i feriti: le politiche di bilancio dei paesi deboli, come l’Italia, la tenuta degli accordi tra le monete, la volontà di potenza della Bundesbank»

Dunque, mentre l’Italia con la svalutazione è sostanzialmente fuori dallo Sme (in buona compagnia) e Mario Monti per correre ai ripari sogna «immediati tagli sulla spesa per decreto legge» (sic), i politici in veste di tecnocrati (o viceversa) che sono al governo condividono la stessa malinconia: il governatore della Banca d’Italia, Sua Eccellenza Carlo Azeglio Ciampi, giunto ai vertici del potere politico-finanziario dopo una brillante carriera di professore di ginnasio, viene descritto come “triste e rabbuiato” (La lira non torna sui mercati. Ciampi costretto al rinvio, “Repubblica”, 22 settembre 1992):

«“Non si poteva fare diversamente. Ci sono ancora valute sotto pressione. Ci vuole tempo perché si plachi una tempesta forte come questa. Io sono nato in una città di mare e so che quando spira il libeccio va avanti per tre giorni. Poi ce ne vogliono altrettanti perché il mare si plachi”. Lapidarie e metaforiche osservazioni di un governatore, costretto a prendere l’ennesima “decisione dolorosa” per la moneta, per la lira […]. Il gesticolare nervoso delle mani di Ciampi sembra tradire la tensione accumulata durante un lungo week-end di lavoro […]. Certo, se la sterlina non fosse uscita dallo Sme, tutto sarebbe più facile. Per l’Europa, innanzitutto. Ma anche per la lira che è stata costretta a svalutare da sola, perché nessuno voleva “affrontare una crisi che era sistemica con una mossa organica”. Ciampi ancora rimprovera gli inglesi per non aver seguito l’esempio italiano. Sembra stigmatizzare il comportamento dei tedeschi. Ma poi riconosce che le colpe sono principalmente domestiche: “Non si è fatto per tempo le cose che bisognava fare”».

A consolare il governatore, manco a dirlo, sempre lui, Marione Monti:

«Di fianco alla rappresentante in Italia della Bundesbank, Adelheid Sailer Schuster, con la quale si confronta sull’emergenza monetaria europea, Monti porta a fondo la sua analisi sulla svalutazione della lira. La definisce il “punto più basso toccato dal governo Amato” e osserva che “poteva essere evitata”. Poi l’economista mette sotto i riflettori Via Nazionale: “Negli ultimi mesi la linea di fermezza nella difesa del tasso di cambio è stata ineccepibile e, secondo me, era ancora sostenibile. Tanto sostenibile da rendere evitabile la drammatica rottura del cambio: si poteva evitare di cedere così fragorosamente il 13 settembre”. […] “Abbiamo riserve in oro per 29.000 miliardi – ha sostenuto Monti – e si poteva lanciare un prestito internazionale in Ecu come hanno fatto l’Inghilterra e poi la Svezia. In questo modo sarebbe stato possibile arrivare al 20 settembre, il giorno del referendum francese su Maastricht”. Insomma per il rettore della Bocconi si poteva seguire un’altra direzione. “E invece – dice – è stato distrutto un patrimonio importante di credibilità creato nel Paese negli ultimi anni soprattutto per merito delle autorità monetarie”.
[…] “Il governo negozia con le parti sociali questioni come le imposte e le tariffe che sono invece di competenza del Parlamento”. Applausi calorosi, naturalmente. Anche da parte della rappresentante della Bundesbank […].».
(Quell’errore di Ciampi nella guerra della lira, “Repubblica”, 24 settembre 1992).

Dopo qualche altro mese di piagnistei, finalmente nel 1993 si cambia musica: “Repubblica” ora saluta il ritorno dell’Italia sull’euromercato (Italia, bentornata sull’Euromercato, 12 gennaio 1993):

«L’Italia torna sull’ Euromercato dopo ben 21 mesi di assenza e lancia un prestito obbligazionario in valuta da 4 miliardi di marchi, circa 3.600 miliardi di lire, cifra che oggi, al momento dell’emissione, potrebbe anche essere aumentata, visto il gradimento che l’operazione ha avuto tra gli operatori internazionali.
[…] Il prestito in marchi, intanto, ha contribuito a rafforzare notevolmente le quotazioni della lira. Il marco è sceso da 923 a 907 lire, mentre il dollaro ha perso circa 40 lire, da 1.520 a 1.480 lire. Il governo Amato, dopo aver varato Finanziaria e privatizzazioni e aver contenuto ad un “buon livello” il deficit del ’92, sente quindi di aver riacquistato una certa credibilità a livello internazionale. Una credibilità minata nei mesi scorsi dalle bocciature di Moody’s, dalla svalutazione e dall’uscita dal Sistema monetario europeo della lira e dalle figuracce rimediate dopo i crac dell’Efim e della Federconsorzi. Ma adesso la fiducia sembra essere tornata, consentendo al governo italiano di battere nuovamente cassa all’estero, giocandosi la carta del prestito in valuta».

L’entusiasmo contagia tutti i settori, dall’industria esportatrice (Con il supermarco i “piccoli” sorridono, “Repubblica”, 14 gennaio 1993) alle borse (Riassorbite in un mese tutte le perdite del ’92, “Repubblica”, 17 gennaio 1993):

«L’ordine è partito dai vertici del gruppo Wolkswagen-Audi. Da qualche settimana il colosso tedesco dell’auto ha puntato sul mercato italiano per rifornirsi di componenti. Quei 20 e più punti persi dalla lira nei confronti del marco, infatti, sono un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Meglio comprare nel Bel Paese, se si vogliono contenere i costi e non far schizzare alle stelle i listini delle Golf e delle Polo. Il supermarco, insomma, finisce per regalare una boccata d’ossigeno alla piccola industria meccanica, che qui a Brescia ha una delle sue roccheforti. È un regalo non solo per gli esportatori, ma anche per i subfornitori fino a ieri messi fuori gioco dagli stranieri a causa delle ragioni di cambio.
[…] Le prospettive dell’export, per quanto difficili, stanno migliorando. E non solo nei confronti della Germania. Lo spiega Pietro Baiguera che con la sua Galba rifornisce di componenti anche il colosso tedesco Hurth-Marine. Afferma: “Adesso con il dollaro a 1.500 lire ci aspettiamo ordini dall’area del Nordamerica”. Una sensazione che è già realtà per l’Omeca di Lumezzane, un azienda che produce valvole speciali per clienti come Shell, Texaco, o Mobil. “Ora – dice Giambattista Camagna, il titolare – il mercato americano che fino a pochi mesi fa per noi era tabù, sta tornando alla nostra portata».

«Euforia in Piazza Affari. Sono stati ancora una volta gli stranieri a battere sul tempo i nostri sfiduciati investitori e ad inaugurare il 1993 nel segno focoso del Toro. Pochi dati parlano da soli: in questa settimana con un crescendo di affari furibondo la Borsa ha conseguito un rialzo del 4,75%. Non basta: nel mese borsistico di gennaio, che si è concluso venerdì, il progresso è stato del 18,45 per cento. Nel giro di neanche 4 settimane si è più che riassorbita la perdita dell’intero ’92».

La svalutazione ha creato difficoltà ai primi concorrenti commerciali dell’Italia in Europa, i tedeschi, tanto da «mettere in dubbio la sopravvivenza dell’azienda Germania», come afferma il presidente della Daimler-Benz (Mercedes tampona il “muro–recessione”, “Repubblica”, 7 aprile 1993). Non è solo il settore auto però a esser stato preso contropiede dall’abbandono della fissità del cambio:

«La recessione economica e la forza del marco frenano i conti ’92 del gruppo Bayer, il colosso chimico che realizza il 79% della sua attività fuori dai confini tedeschi. Il giro d’affari è calato del 2,8% a 41,2 miliardi di marchi (circa 39.800 miliardi di lire), mentre l’utile netto è sceso del 15,7% a 1,6 miliardi di marchi. In calo quindi anche il dividendo, da 13 a 11 marchi per azione. La diminuzione del fatturato è stata influenzata in misura determinante, il 3% (ovvero 1,27 miliardi di marchi), dalla svalutazione di sterlina, lira e peseta e per l’1,7% (735 milioni di marchi) dalla diminuzione dei prezzi di vendita, compensata in parte dall’incremento delle quantità vendute (pari all’ 1,9% del giro d’ affari, 803 milioni di marchi). […]» (Bayer tradita dal marco, “Repubblica”, 18 marzo 1993).

Infine, esattamente a un anno dalla svalutazione, parla ancora lui, il rettore della Bocconi, Mario Monti, rilasciando a “Repubblica” dichiarazioni che col senno di poi (ma anche quello di allora) risultano a dir poco disarmanti (“La svalutazione ci ha fatto bene”, “Repubblica”, 12 settembre 1993):

«Professore, provi a fare un bilancio e a individuare cosa può accadere.
“Il 13 settembre 1992, quando Amato annunciò la svalutazione in Tv, sembrava un fatto essenzialmente italiano mentre in effetti è stato di portata più generale. Questo può arrecare consolazione. Potremmo dire: ‘Non siamo stati gli unici a saltare, ma anzi siamo stati i primi a vedere la strada da seguire’. Però può anche portare a considerazioni più preoccupate su come altri paesi stanno cercando di reagire alla crisi dello Sme e come noi stiamo cercando di reagire”.
In che senso?
“Nel senso che vi è una tendenza in Italia a considerare la svalutazione come uno degli elementi positivi del nuovo panorama, anche da parte di coloro che fino al 13 settembre scorso si erano pronunciati a favore del mantenimento del cambio. Io sono tra questi e perciò mi sono chiesto ogni tanto in che cosa fosse giusta e in che sbagliata la posizione che poi è stata smentita dai fatti”.
E che risposte si è dato? “Un punto dove certamente ho visto male riguarda le conseguenze inflazionistiche”.
Perché l’inflazione è bassa…
“Sì, per ora non ci sono stati effetti”.
[…] L’inflazione, come prima considerazione. E poi?
“La seconda considerazione su cui dobbiamo interrogarci è quella del rapporto tra cambio e finanza pubblica. L’avere tenuto il tasso di cambio così fisso dall’87 al ’92 ha sicuramente accresciuto gli sforzi delle imprese per la razionalizzazione, la ricerca di concorrenzialità. Siccome però questa fissità del cambio si accompagnava, almeno fino al 1990, alle restrizioni sui movimenti di capitale, significava concentrare tutte le pressioni al risanamento sul settore produttivo, mantenendo uno schermo di protezione sul comparto pubblico”.
Conclusioni?
“Lo specifico timore che nel settembre del 1992 mi portava a dire ‘teniamo duro sul cambio’ era che lasciandolo andare, si potesse trovare nella svalutazione la illusoria soluzione dei problemi, senza continuare a risanare la finanza pubblica”. E questo è accaduto? “No. Anzi, pochi giorni dopo, il 17 settembre, il governo Amato ha approvato quel famoso pacchetto di 93 mila miliardi. Allora mi sono chiesto se era contraddittorio non volere la svalutazione perché avrebbe disincentivato il risanamento della finanza pubblica, mentre dovevo constatare che a svalutazione avvenuta il risanamento è stato praticato anche in dosi maggiori di prima”».

L’unica conclusione che se ne può trarne è che oltre cinque lustri fa l’Italia era già “uscita dall’euro” senza accorgersene. Rileggere questi ritagli con la consapevolezza che la posta in gioco è identica è un esercizio al contempo deprimente e incoraggiante, perché da una parte testimonia come il popolo italiano si trovi continuamente incastrato nella ruota del criceto adibita dai suoi avversari, ma dall’altra anche come esso sia capace a un certo punto di scegliere il proprio destino, attingendo quasi a “energie nascoste”, a una geniale adattabilità a qualsiasi scenario.

(Maupal, Roma, 2018)

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