Ma vogliamo capirlo finalmente che l’Italia è più bella così? pic.twitter.com/BZ3YRxB6rR
— Pier Luigi Bersani (@pbersani) February 6, 2020
«Accanto alla narrativa multiculturale dal punto di vista economico […]si trova una narrativa che plaude al multiculturalismo in una prospettiva più strettamente culturale. Da questo punto di vista la trasformazione delle società nazionale omogenee in una società “multiculturale” non è considerata un arricchimento in senso economico, ma in quello culturale. La società diventa più complessa, diversificata, meno trasparente, ma anche più pericolosa, quindi più emozionante e rischiosa. In questa visione, quindi, attraverso l’incentivazione dell’immigrazione di massa da eterogenei territori di provenienza, si dovrebbe superare l’obsoleta configurazione dell’epoca degli stati nazionali o europea e ne dovrebbe prendere il posto un sincretismo di frammenti culturali che non è più obbligato ad avere una coerenza interna.
Questa richiesta si collega a tendenza fondamentali dello sviluppo culturale nella second metà del ventesimo secolo. Negli USA, per esempio, nel diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo si parlava ancora di melting pot. Esisteva, quindi, l’dea che gruppi diversi di migranti si sarebbero fusi in una nuova cultura americana in cui frammenti della cultura di provenienza avevano soltanto un valore folcloristico. Si mangiano hamburger, pizza o sushi, ma per il resto si è americani.
Nell’ultimo terzo del ventesimo secolo, poi, divenne evidente che questo modello di integrazione culturale vincolante stava per fallire. Nel 1991 lo storico americano Arthur M. Schlesinger pubblicò l’influente volume The Disuniting of America. Reflections on a Multicultural Society, in cui constatava (e lamentava) il fallimento del programma di melting pot. La società multiculturale si suddivide sempre più in segmenti che seguono imperativi proprio e che sono, tra crescenti difficoltà, ancora tenuti sotto controllo da uno Stato centrale che ancora rivendica il monopolio dell’uso della forza. Secondo la sua diagnosi, la società multiculturale mostrava i primi segni di una trasformazione in una società multitribale.
[…] La nuova civiltà si percepisce come ribelle e diversa, e ciò diventa riconoscibile in modo particolarmente evidente ogni volta che incontra resti dell’alta cultura della società agraria. Vuole essere esplicitamente contorta, storta, falsa, distorta, quindi “rivoltata”. Si tratta di una cultura che eleva l’In-Giusto a propria firma. Erige edifici che appaiono a un passo dal crollare. Questo fascino della stortura e dello sbagliato arriva fin nei dettagli. Ogni pretesa di simmetria e ordine sembra insopportabile al gusto “rivoltato” della vita.
[Questa cultura] è dionisiaca nel senso rappresentato dal contadino ubriaco che si vede nei quadri di genere olandesi. È volgare e fisica e, alla fine, è dominata dal fascino della violenza. Forse qui si tratta di un’anticipazione fenomenologica della guerra civile, ovvero della “guerra molecolare” di cui parlava Enzensberger.
In questa cultura anticipata dalla guerra tribale, che già oggi si tiene nei cortili delle scuole e che presto si estenderà in altre zone del quartiere, può di nuovo arrivare il momento per il “cuore avventuroso” [abenteuerliche Herz]. […] [A chi] manca la vera esperienza di guerra e […] cerca compensazione, nella società multiculturale e multitribale può esserci un moral equivalent to war: un luogo di azzardo, avventura ed esperienze estreme, come alternativa alla soffocante cultura nazionale»(Rolf Peter Sieferle, Migrazioni. La fine dell’Europa, tr. it. G. Vitellini, LEG Edizioni, Gorizia, 2017, pp. 56-59).