Come risposta ai “dazi di Trump”, Milena Gabanelli ha pubblicato sul “Corriere” un’inchiesta decisamente poco obiettiva sul settore agroalimentare nostrano, che rivela sin dal titolo la sua natura involontariamente comica: Parmigiano, prosciutto e ortofrutta: ecco come l’Italia è diventata una superpotenza (2 aprile 2025).
Lasciando da parte l’obiettivo principale dell’articolo, che sarebbe quello di dimostrare che le tariffe americane metteranno in ginocchio il nostro Impero del Formaggio (quando invece è impossibile per la stessa autrice non ricordare che “il principale mercato di destinazione [dell’Italia] sono proprio i Paesi Ue, che assorbono il 65% delle nostre esportazioni”), uno dei proposito del pezzo sarebbe di dimostrare, alla faccia di quei politici contrari all'”eccessiva regolamentazione comunitaria”, che le norme di Bruxelles abbiano in realtà aiutato l’industria agroalimentare italiana a prosperare, elogiando in maniera totalmente acritica le iniziative dell’UE in questo settore.
Peccato che la Gabanelli non si periti nemmeno un istante di ricordare perché, da destra a sinistra, Roma sia sempre in guerra contro Bruxelles per la difesa del Made in Italy. Partiamo dalla famosa “crociata delle vongole”, che per anni ha tenuto impiegato il nostro Paese in un braccio di ferro con l’eurocrazia per consentire che i molluschi di 22 millimetri (cioè 3 millimetri inferiori alla misura consentita) potessero essere commercializzati sul mercato comune. Va notato che, allo stato attuale, questa “concessione” è suscettibile di sospensione in ogni momento, essendo appesa a un meccanismo di deroga rinnovato annualmente che continua ad angosciare centinaia di aziende italiane del settore.
Per comprendere come ci considera l’Europa, si possono ricordare i toni paternalistici con alla fine del 2018 sui social il Parlamento Europeo (gestito da una ignota “squadra web“) rimbrottò Roma per le sue eccessive lamentele, ricordandole l’incredibile liberalità (o “umanità” in senso fantozziano) con cui Bruxelles aveva -provvisoriamente- interrotto la politica di sequestri e blocchi per la pesca italiana.
📏L’UE è sotto accusa per le misure di ortaggi e pesca. Prendiamo le vongole: Bruxelles permette vongole italiane di 22mm contro i 25 delle sorelle comunitarie. Ma come sarebbero quelle italiane senza Europa? Più salate e meno in voga! pic.twitter.com/GQv9t4sdKi
— Parlamento europeo (@Europarl_IT) December 19, 2018
Va infatti aggiunto che dal 2006 al 2017 il regolamento comunitario sulle vongole ha messo in ginocchio il settore italiano, comminando sanzioni e sequestri anche per un solo esemplare “fuori misura” in un carico di un quintale. Persino le cooperative romagnole erano insorte contro la regola dei “25 millimetri”, che impediva di trovare una sola vongola legale nell’Adriatico. Per anni dunque abbiamo perso centinaia di migliaia di euro proprio per i “Gabanelli” di turno, che pur di difendere l’utopia eurocratica hanno trovato qualsiasi giustificazione atta a impedire la più blanda reazione italiana (subito bollata come “populista” o “sovranista”).
Ad onta dei toni ditirambici del “Corriere”, è l’intera storia dell’Unione Europa a raccontare una sistematica penalizzazione del Made in Italy. Proprio per l’arrendevolezza delle nostre istituzioni (che comunque sono state condizionate culturalmente, e ci torneremo parlando proprio delle “vongole”) ci sono decine di punti dolenti che non sono mai stati affrontati: si parla, per esempio del “vino senza uva”, cioè dei famigerati wine-kit che le aziende nordeuropee possono vendere in Ue e nel resto del mondo addirittura con denominazioni taroccate (Barolo come “Barollo”, Brunello di Montalcino come “Montecino”, Valpolicella come “Vinoncella”).
Stesso discorso per il “cioccolato senza cacao”, ovvero la possibilità sancita dalle normative comunitarie di utilizzare grassi vegetali diversi dal burro di cacao (fino al 5%) senza obbligo di indicazione. Oppure per i “formaggi senza latte”, che racconta di un’altra “schermaglia alimentare”, nel momento in cui Bruxelles nel 2015 ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia (a quanto pare ancora aperta!) per una legge del 1974 che vieta l’uso del latte in polvere nei formaggi, burro e yogurt.
Per l’UE tale proibizione rappresenta un “ostacolo al mercato interno” su quale ovviamente i “liberali alle vongole” stile Gabanelli non hanno nulla da commentare: eppure è questa la mentalità con cui le istituzioni europee potrebbero cancellare da un giorno all’altro qualsiasi concetto di Made in Italy in nome della maggior concorrenza o di qualsiasi altra moda politica che dalla loro prospettiva sarebbe in grado di “favorire maggiormente l’integrazione”.
Un altro capitolo da affrontare sarebbe quello dei fondi comunitari “per la promozione dei prodotti agroalimentari sul mercato interno e dei Paesi terzi”: l’Italia viene penalizzata regolarmente in maniera quasi offensiva, per esempio avendo ricevuto nel triennio 2017-2020 un decimo dell’importo dato alla Francia e un ottavo di quello concesso alla Spagna. Ma è inutile continuare perché la situazione è già abbastanza chiara a chi possiede un minimo di cognizione.
Per concludere, sono i numerosi paradossi generati dall’attribuzione positiva del titolo di “Imperatori del Prosciutti” agli italiani che dimostra come “europeisti” e affini siano accecati da una delle ideologie più contradditorie e pagliaccesche degli ultimi anni. Proviamo a fare un breve ragionamento partendo proprio dalle “vongole”: come è noto, l’espressione è divenuta quasi proverbiale per indicare la tendenza nazionale a far finire tutto a “tarallucci e vino”, a non affrontare i “doveri della politica” con la dovuta serietà.
Essa venne coniata da Mario Pannunzio in un editoriale del 1952 per il “Mondo”, appunto intitolato L’Italia alle vongole, che rappresenta perfettamente quella mentalità “azionista” (il giornalista fu del resto tra i fondatori del Partito Liberale e poi del Partito Radicale) la quale all’epoca avrebbe osteggiato in ogni modo la riduzione dell’industria italiana alle “spaghettate”, ma che al giorno d’oggi sembra invece essersi innamorata di tale evoluzione tanto da ancorarla in maniera quasi ridicola alle proprie fantasie di “rivoluzione liberale”, “Europa-Nazione” e “globalizzazione dal volto umano”.
Giusto per fare un esempio “di colore”, dal 2001 al 2015 per le direttive europee in Italia non si è potuta mangiare la pajata, il tradizionale piatto capitolino che a fronte delle restrizioni sanitarie adottate contro la “mucca pazza” venne proibito sulle tavole nostrane e del resto dell’Europa al pari dell’ossobuco e del cervello fritto. Per rivedere il regolamento europeo, diventato in breve anacronistico (come qualsiasi iniziativa presa in ambito continentale, considerando la monumentale burocrazia che ne rappresenta l’essenza, anch’essa immune da qualsiasi reprimenda degli “anti-statali” alle vongole), si è dovuto ovviamente combattere la solita ridicola “guerra santa” a suon di carte bollate e interrogazioni parlamentari.
Perché all’epoca la Gabanelli non ha parlato della “superpotenza della pajata“? Probabilmente perché non c’era da polemizzare con Trump (o rendersi conto della globalizzazione è finita), e qualsiasi iniziativa di difesa del Made in Italy veniva ancora considerata sintomo di paranoia populista. Adesso si rivolta nuovamente la frittata (absit iniura verbis) a seconda della stagione politica e perciò si può sospettare che fare della difesa della pajata un principio potrebbe trasformarsi in un’inedita espressione di responsabilità ed europeismo.
L’Italia alle vongole smette dunque di essere tale nel momento in cui lo diventa letteralmente: ma ci sarà pure un limite, o un vincolo (anche esterno), al ridicolo?