Kekkonen e il maschio nordico

Uno stereotipo diffuso nell’immaginario collettivo italiano è quello del “maschio nordico”: il folklore lo testimonia in mille modi, da certe etimologie che tramandano la memoria della furia lanzichenecca, a uno dei nostri stock characters più emblematici, l’indimenticabile Kekkonen, cuore (e orecchio) della Marchigiana di Mezzo destro mezzo sinistro (non un parente del vecchio presidente finlandese Urho, col quale tuttavia condivideva la passione sportiva, e forse non solo quella).

(Mezzo destro mezzo sinistro)

Anche a livelli più elevati, l’archetipo mantiene tutta la sua potenza; come esempio valga un ricordo di guerra di Gillo Dorfles (riferito a un maschio inglese, ma stiamo pur sempre parlando di un macro-topos):

«Era passato da poco il fronte, in Toscana, nel ’44, e molti ufficiali alleati avevano preso a frequentare nelle campagne le famiglie italiane che fossero un po’ anglofone. Mi vengono alla mente, ora, i discorsi d’un giovane capitano dell’armata britannica: parlando della sua famiglia lasciata in patria, costui mi diceva -molto fiero di sé-: “Sono già tre mesi che sono lontano da casa e ho saputo fare a meno d’ogni sexual intercorse” (ossia: “controllo così bene i miei istinti che ho potuto astenermi da ogni rapporto sessuale”). Questo veniva detto non per documentare una sua inferiorità in questo campo, ma anzi una sua superiorità nel saper vincere i propri fisiologici bisogni. Rimasi stupito, allora, di fronte a queste dichiarazioni così opposte a quelle che un italiano avrebbe fatto in circostanze analoghe, vantandosi probabilmente – tanto più se in terra straniera – di sue inaudite e innumerevoli conquiste. Eppure, a pensarci bene, se le vanterie dongiovannesche nostrane sono stucchevoli, devo ammettere che anche la glorificazione d’una propria continenza, morigeratezza, finisce per assumere un’analoga veste di stucchevole perbenismo» (Conformisti, Donzelli, Roma, 1997, pp. 21-22)

Oltre alla pederastia congenita, un altro carattere innato del maschio nordico è il nazismo: il caso più recente è quello di PewDiePie (al secolo Felix Arvid Ulf Kjellberg), un giovanotto svedese diventato miliardario commentando videogiochi su Youtube che, dopo una serie di battutine antisemite, è stato licenziato dalla Disney. Come racconta il “Corriere” (so che ormai nemmeno i pensionati si informano di quel che accade sul web attraverso la stampa, ma non voglio perder troppo tempo dietro questa storia):

«Il ragazzo svedese ha deciso di parlare di Fiverr, il servizio online che permette di chiedere a terzi piccole prestazioni pagando qualche dollaro. Per fare la prova PewDiePie ha offerto 5 dollari a due indiani che garantivano di ballare nella giungla con un cartello e il messaggio scelto dal cliente. “Morte agli ebrei”, ha indicato PewDiePie sul formulario online, e i due uomini hanno ubbidito. Lui ha pubblicato le immagini prendendola sul ridere. Altri lo hanno trovato meno spiritoso. Non è la prima volta che PewDiePie diffonde contenuti a sfondo antisemita o nazista, giocando sul fatto che si tratta di scherzi […].
Ecco l’elenco delle ultime prodezze, da settembre in poi: ha mostrato lo spezzone di un discorso di Hitler e le svastiche inviate dai fan; si è esibito in camicia bruna mentre guarda un video di Hitler; ha diffuso l’inno del partito nazista con una voce fuoricampo di Hitler che dice “Sieg Heil” e la scritta, ovviamente sarcastica, “nazista accertato”; in un altro clip di PewDiePie c’è Gesù che dice “Hitler non ha fatto niente di male”; il suo conto Twitter è stato poi sospeso per due messaggi in cui, per scherzo, giurava fedeltà all’Isis».

In realtà pare sia solo uno scandalo montato ad arte dai media per avere un “nazista famoso” da collegare immediatamente all’influenza negativa di Trump sul mondo (qui c’è un video che spiega tutto). Ad ogni modo, la character assassination [“karaktärsmord”] inflitta a se stessi è un fenomeno tipicamente kekkoneniano molto diffuso tra gli scandinavi: ricordo gli elogi a Hitler del regista danese Lars von Trier al festival di Cannes del 2011, oppure le disavventure dello scrittore norvegese Jostein Gaarder, autore per ragazzi acclamatissimo un attimo prima di scrivere un articolo contro Israele (in parte condivisibile, ma dai toni che un goy non può permettersi).

Mi pare che possa rientrare nel genere anche il caso delle simpatie nazi del fondatore di IKEA, Ingvar Kamprad. Poi c’è ovviamente tutto il filone, più “produttivo”, dei metallari che bruciano le chiese (ma i veri danni li fanno quando suonano) o di Anders Behring Breivik (che perlomeno ora sta scontando il carcere duro).

Dovremmo individuare una definizione la più precisa possibile del “maschio nordico”. Per esempio, le visite dalla Danimarca di questi giorni mi hanno fatto ripensare a Kierkegaard, riguardo al quale condivido una considerazione di Thomas Molnar:

«Il protestantesimo dette i natali a un solo genio religioso, Søren Kierkegaard, genio che finì nella disperazione, nell’assurdo e nell’irrazionale, non avendo potuto trovare un naturale sbocco nella propria religione».

Anch’io ho sempre avuto la sensazione di trovarmi di fronte al génie latin; sensazione peraltro confermata dall’interesse suscitato dal Nostro in alcuni grandi della cultura italiana del Novecento, come Remo Cantoni, Franco Fortini, Cornelio Fabro o Carlo Diano, che impararono il danese solo per poter leggerlo in originale.

Persino la relazione con Regina Olsen, che ricorda all’apparenza una tipica storia d’amore danese (lei sposa un altro, lui muore vergine), in realtà ha molti elementi riconducibili ai “nostri” amoretti (se siamo talmente onesti da attribuire l’italianità a un Leopardi o a un Pavese).

Difficile tuttavia, al di là dei pregiudizi, esprimere una valutazione definitiva sull’essenza del maschio nordico. Di certo non si tratta di una questione geografica, altrimenti dovremmo includere nella classificazione anche la fauna maschile di Vilnius, dal momento che il mese scorso l’ONU ha “promosso” la Lituania dall’Europa orientale a quella settentrionale – ovviamente non per questo i lituani hanno smesso di frequentare l’Eastern European Men School:

La questione è complessa e a tratti imbarazzante; perciò trovo opportuno chiuderla subito con Knut Hamsun. Perché, alla fin fine, può anche darsi che dalla prospettiva norvegese i danesi possano apparire come dei “terroni” (nello stesso modo in cui gli inglesi guardano agli irlandesi, i tedeschi agli austriaci, i russi ai serbi o, per restare in tema, i finlandesi agli estoni), e che il loro senso dell’umorismo sia così corrosivo e selvaggio da potersi permettere di scherzare pure col nazismo (non è da trascurare il fatto che i danesi siano l’unico popolo al quale è stata collettivamente conferita l’onorificenza di “Giusto tra le nazioni”).

Lasciamo da parte anche gli svedesi, che tutto sommato hanno una tradizione destrorsa di tutto rispetto (è Rudolf Kjellén ad aver inventato la cosiddetta “geopolitica”), ma cadono sempre sull’ossessione per la salute, come dimostrano personaggi del calibro di Carl-Ehrenfried Carlberg (1889–1962), il quale presentò agli svedesi il nazismo sostanzialmente come una forma di ginnastica all’aperto.

Scartiamo persino i finlandesi, ché l’unico fascista che hanno avuto è stato Vihtori Kosola (si faceva chiamare “Kosolini”), e il solo nazismo che apprezzano è quello declinato in salsa omo-sadomaso.

Resta il “clan dei norvegesi”, cioè Vidkun Quisling e il suo corrispettivo letterario Knut Hamsun. Mi è capitato recentemente di imbattermi in un elogio di questo Nobel per la Letteratura da parte nientepopodimeno che di Giuseppe Culicchia:

«Se penso alla Norvegia penso a Knut Hamsun e a due suoi romanzi in particolare, Fame e Misteri, tra i più belli che abbia avuto la fortuna di leggere. Da quanto risulta Hamsun è stato l’unico ad aver fatto pubblicare un necrologio per Hitler all’indomani della sua morte, ben sapendo che con la sconfitta imminente del Reich ne avrebbe pagato le conseguenze. Infatti venne processato e chiuso in manicomio. Ma i suoi libri restano grandissimi» (Mi sono perso in un luogo comune, Einaudi, Torino, 2016, pp. 147-148)

Ecco, il dizionarietto dell’ex-Cannibale è tutto un po’ così: fino alla voce Ebrei (p.82) sembra una versione sfigata di Severgnini, poi non so bene che gli sia preso, ma inizia a parlar male degli ebrei (appunto), di Israele, dei gay, di Facebook “controllato dal Mossad” e “degli usurai della finanza internazionale”.

La sindrome di Gotemburgo (dove è nato PewDiePie) deve aver contagiato pure lui (che si sente un po’ ariano onorario). Per fortuna che, come al solito, tutti hanno recensito il libro senza nemmeno aprirlo, altrimenti chissà quale polverone avrebbe sollevato. Perché, alla fine, questa doveva essere solo una recensione al libretto di Culicchia, che sembra uscito direttamente da La letteratura nazista in America di Bolaño. Lo invito a scriverne altri: anche qualora venisse beccato dal sinedrio mondiale, potrà sempre rispondere come il giovane svedese («Il mio campo è quello dell’entertainment, non dei commenti politici»), oppure fuggire, se non in Scandinavia, almeno in Antartide o Brasile.

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