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Khmer Rossi: la “Karma Police” della Cambogia polpottiana

Ho trovato una vecchia copia di A Cambodian Odyssey di Haing Ngor, scrittore un tempo celeberrimo negli Stati Uniti non solo per aver vinto un Oscar come miglior attore non protagonista in Urla del silenzio, pellicola inglese del 1984 ispirata al suo bestseller The Killing Fields, ma anche per le circostanze (molto “culianesche”) in cui venne ucciso: assassinato nel 1996 a Los Angeles da una gang di asiatici, si vocifera su ordine dello stesso Pol Pot.

Lasciando però da parte tutto il “contorno” del volume (dalla verosimiglianza delle testimonianze – sulle quali è comunque consentito dubitare, non riguardando la Shoah – al clima da Guerra fredda che ne ha favorito il successo), vorrei rimarcare alcuni spunti interessanti che offre.

Il primo in realtà è più che altro una conferma di quella storiella che i khmer rossi volessero sterminare tutti quelli con gli occhiali. Ngor riporta una testimonianza di prima persona (un comizio di un khmer rosso), che però non mi pare sia mai stata presa in considerazione dagli storici:

«Perché certe persone tra di noi indossano ancora occhiali? Per cosa li usano? Non riescono a vedermi? Se ti vengo incontro per prenderti a schiaffi, tu ti sposti e allora vuol dire che ci vedi bene. Quindi non avete bisogno degli occhiali. Quelli che li indossano vogliono sembrare belli secondo i canoni estetici dei capitalisti, li indossano perché sono vanitosi. Non abbiamo più bisogno di gente del genere! Le persone che pensano di essere belle sono scansafatiche! Sono sanguisughe che succhiano le energie degli altri».

Il punto più importante però riguarda il kama, o “karma”: l’Autore è in più passaggi critico verso questo concetto così entusiasmante per taluni occidentali, perché avrebbe fornito una giustificazione teologica alle torture del regime in base all’assunto che tutto ciò che subiamo in questa vita è il prezzo da pagare per le cattive azioni compiute nella precedente. Ngor narra alcune delle atrocità a cui assistette nel campo di lavoro (come le crocifissioni e i roghi degli “scansafatiche”), ricordando anche i supplizi da egli stesso subiti (come quando i guardiani gli tagliarono il mignolo e la caviglia e vi fecero “pascolare” le formiche rosse), denunciando la rassegnazione con cui le vittime accettavano il proprio “destino”.

Il comunismo sembra passato di moda, mentre invece l’orientalismo d’accatto che ha contribuito alla diffusione del karma in occidente gode ancora di ottima salute: forse è anche per questo che gli studiosi hanno completamente sottovalutato il ruolo dei khmer rossi in qualità di karma police, cioè di perpetratori di un genocidio autorizzato dal fatalismo buddhista innestato sull’Angkar, la versione polpottiana del maoismo. Col senno di poi, per noi italiani è stato comunque meglio aver avuto a che fare col catto-comunismo piuttosto che col buddho-comunismo.

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