Kurdistan: un secondo Israele in Medio Oriente?

Quando i soldati americani hanno lasciato la Siria, Israele è subentrato a Washington nella gestione della “questione curda”, continuando a fornire supporto indiretto non solo alle fazioni storicamente filo-americane ma anche agli “estremisti”, nella prospettiva di portare Erdoğan (anche “con le buone”, va detto) a considerare Hamas alla stregua del PKK.

La collaborazione tra ebrei e curdi nell’area, del resto, risale a molti decenni addietro, e non è un caso che l’argomento sia sempre riuscito a mettere d’accordo sinistra e destra israeliana, entrambe interessate alle ricadute internazionali di una “patria curda”.

Per Tel Aviv, infatti, un ipotetico Kurdistan potrebbe risultare incredibilmente utile a impostare una détente con gli alleati occidentali i quali, nel peggiore dei casi, si troveranno costretti a prestare maggiore attenzione a un “secondo Israele” (sicuramente più cattivo e in posizione più scomoda dell’originale), e dall’altra a mettere in difficoltà antagonisti storici come -appunto- Turchia, ma anche Iraq e Iran (la Siria ormai purtroppo è andata).

La nascita di un Kurdistan rappresenterebbe senza dubbio una vittoria per Israele, e non andrebbe nemmeno sottovaluto il successo propagandistico dopo l’ennesima mattanza di Gaza, nella prospettiva di erodere, negli “ambienti che contano”, l’autorevolezza della causa palestinese.

Il curdo, a ben vedere, è adattabile a qualsiasi palatofemminista, anarchico, monarchico, socialista, nazionalista ecc… Tuttavia, bisogna rendersi conto con chi si ha a che fare, perché al di là dell’immarcescibile “curdomania” occidentale, questo popolo ha una “fedina penale” piuttosto interessante.

Per provare a demolire un po’ di mitologia resistenziale sorta attorno al “Kurdistan”, segnalo alcune inchieste della giornalista di origine siriaca Sarah Abed, la quale testimonia l’avversione che le minoranze mediorientali nutrono nei confronti dei pupilli di Israele e degli americani

La violazione dei diritti dei gruppi minoritari (siriaci, yazidi, armeni, arabi) nel Kurdistan iracheno è sistematica e prosegue da decenni: non parliamo solo di pulizia etnica, ma anche di un “martirio culturale” al quale queste popolazioni sono state sottoposte.

Così come nel 1915 i curdi parteciparono al genocidio armeno (e assiro) “ripulendo” quelle terre che ora rivendicano come proprie, allo stesso modo negli ultimi anni hanno cancellato le tracce delle culture più antiche (assira, armena e aramea), modificando la toponomastica non solo delle città (vedi Nohadra trasformata in Dahuk), ma anche dei siti di interesse storico. Secondo la Abed, è attraverso tale manipolazione che i curdi sono riusciti a inventarsi dal nulla una tradizione millenaria con la quale giustificare le proprie pretese egemoniche ed espansionistiche.

Come afferma un altro giornalista di origine siriaca (esule in Svezia), Augin Kurt Haninke,

«nonostante l’oppressione che hanno subito da parte dei turchi, i curdi non hanno mai imparato a essere tolleranti. Il loro scopo nel Nord dell’Iraq è quello di assimilare o espellere le popolazioni indigene assire che vivono lì da sette millenni».

Ci sono alcuni atti particolarmente odiosi di cui le milizie curde si sono macchiate durante la guerra civile siriana. Per esempio, il brutale assassinio, avvenuto nell’aprile 2015, del generale assiro David Jindo, attirato dall’YPG in una trappola con la scusa di una proposta di collaborazione per essere torturato e giustiziato.

Le informazioni riguardo a tali vicende sono rarefatte e sporadiche, poiché ovviamente la loro diffusione rovinerebbe l’immagine dei “guerriglieri a fumetti”; tuttavia grazie al lavoro della diaspora in contatto con le varie armate rimaste fedeli ad Assad, il generale Jindo è già entrato a far parte dell’epica siriaca, accanto a nomi che conosciamo poco, come quello del patriarca nestoriano Mar Shimun XXI Benyamin (1887-1918), ucciso anch’egli a tradimento dal capo tribale curdo Simko Shikak (uno dei più feroci sterminatori di cristiani persiani).

In generale i curdi sono intolleranti verso tutte le altre minoranze perché si sentono perennemente accerchiati (al pari di Israele, che infatti in Medio Oriente non ha amici): il vandalismo anticristiano, incoraggiato dai loro imam, è sfociato nei tumulti del dicembre 2011, quando vennero distrutti negozi di liquori, alberghi, ristoranti di proprietà di siriaci e yazidi di Dahuk.

Un esempio recente di tale “politica” verso queste due etnie è l’imposizione del disarmo completo delle loro milizie con l’assicurazione che i Peshmerga si sarebbero occupati della loro difesa: il risultato, prevedibile, è che gli assiri sono stati lasciati completamente in balia delle forze nemiche.

Un altro particolare che emerge dagli articoli della Abed è la corruzione endemica su cui si fonda la gestione del potere del Kurdistan iracheno: basti pensare che, nonostante il controllo totale sul proprio petrolio e i cospicui aiuti internazionali ricevuti negli ultimi anni, il Governo Regionale è riuscito a realizzare un buco di 25 miliardi di dollari. È anche per questo che il referendum per l’indipendenza del 2017, seppur dal risultato plebiscitario a favore del “Sì”, si sia trasformato in un boomerang per la fazione più filo-occidentale, contribuendo ad accelerare la catastrofe economica del governo da essa espresso.

È utile ricordare un commento dell’epoca di Recep Tayyip Erdoğan, che rivolse ai fratelli curdi un messaggio molto chiaro:

«Nonostante la nostra opposizione, il Governo Regionale del Kurdistan ha voluto fare a tutti i costi il referendum… A parte Israele, nessun altro Paese ha condiviso questa decisione. Il fatto che un singolo gruppo pretenda di imporre la propria egemonia su un’area come quella dell’Iraq del Nord, così variegata dal punto di vista religioso ed etnico, sarà occasione per nuovi conflitti e sofferenze… Chi accetterà la vostra indipendenza? Il mondo non è solo Israele. Il Kosovo è stato riconosciuto da 114 Paesi, ma è ancora in grave difficoltà. Caro Iraq del Nord, cosa potrai mai combinare assieme a Israele? Ora che cominceremo a imporre le nostre sanzioni, vi troverete in grossi guai. Ci basterà chiudere le valvole e sarà tutto finito, tutti i vostri guadagni spariranno immediatamente. Quando i nostri camion smetteranno di andare nel Nord Iraq, morirete di fame… Non distruggete il vostro domani per l’avidità del momento. Sventolare le bandiere israeliane non vi salverà…»

Uno come Erdoğan non è così ingenuo da illudersi ancora che con la rimozione di Assad la strada sia spianata (altrimenti non sarebbe ancora al potere): egli magari poteva essersene convinto all’inizio, ma è stato ripetutamente tradito da alcune fazioni estremiste di questo ipotetico Kurdistan.

Per comprendere appieno il discorso bisognerebbe avere un minimo di familiarità con la politica interna turca (alla larga dunque i giornalisti italiani): il blocco di potere espresso dal “Sultano” si può considerare “neo-ottomano” nella misura in cui sarebbe intenzionato a superare il vecchio nazionalismo kemalista per offrire alla Turchia un respiro internazionale nel nuovo assetto mondiale ed evitarle un eterno destino di instabilità e colpi di stato.

L’islamismo di cui viene tacciato Erdoğan fa in realtà da corredo alla necessità di abbandonare un “laicismo” che comunque implicherebbe, ad onta degli analisti “occidentali”, una guerra perpetua a qualsiasi accenno di Kurdistan.

È facile, ora, far passare Erdoğan da opportunista, ma la linea del suo partito non è cambiata di una virgola: semplicemente, i curdi devono accontentarsi di un’autonomia limitata, non pretendere di fare a pezzi le nazioni circostanti (consci che a impugnare il metaforico “coltello” sarebbero comunque Washington e Tel Aviv) ed eliminare qualsiasi rivendicazione sui territori che ormai sono parti irrinunciabili dello Stato turco.

Ankara è preoccupata che anche gli elementi più radicali e, almeno all’apparenza, filopalestinesi della “curderia” possano, sulla scia dell’euforia causata dalla repentina uscita di scena di Assad, stringere un patto col diavolo e consentire a Israele di “vendicarsi” degli anni, se non decenni, di supporto ad Hamas (Netanyahu non vedrebbe l’ora). Gli Stati Uniti dovrebbero porsi da mediatori, ma sappiamo bene che a dettar legge a Washington non c’è di certo una lobby turca

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7 thoughts on “Kurdistan: un secondo Israele in Medio Oriente?

  1. Scusate,
    forse avevo capito male, ma, fino ad oggi, avevo pensato che gli Yazidi fossero etnicamente Curdi. Ovvero che l’identità curda fosse basata su dati etnico-culturali, che vedevano ed accomunavano Curdi di varie religioni (Sunniti; Sciiti, EBREI- gli Ebrei del Kurdistan furono i primi ad avere donne rabbino fin dal XVII Secolo- Cristiani Cattolici, Nestoriani, Ortodossi,Evangelici; Yazidi, Zoroastriani; Mandei, e perfino seguaci di qualche cosa derivata dalle antiche religioni babilonesi. Quando parlate del martire Il patriarca nestoriano Mar Shimun XXI Benyamin (1887-1918), QUELLE DATE si riferiscono all’inizio ed alla fine del suo pontificato? O sono quelle di nascite e morte? Diventare patriarca a 31 anni è insolito. Grazie per le risposte .

    1. Mi sembra che il leader storico dei partigiani Curdi attivi contro Reza Palhevi e Saddam Hussein, Mustafà Barzani, era Curdo di etnia e Yazide di religione .

      1. Barzani era della generazione precedente e non era Yazide, ma Hall- al- Haq, un culto dove qualche cosa che ha a che fare con lo sciismo, è sincretizzato con lasciti degli antichi culti babilonesi .

    2. Quando parlate del martire Il patriarca nestoriano Mar Shimun XXI Benyamin (1887-1918), QUELLE DATE si riferiscono all’inizio ed alla fine del suo pontificato? O sono quelle di nascite e morte? Diventare patriarca a 31 anni è insolito. Grazie per le risposte

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