Solitamente non parlo dei fatti miei in pubblico (tranne che quelli sentimentali, perché in fondo non c’è nulla di compromettente), tuttavia la situazione della mia biblioteca personale sta cominciando a preoccuparmi, in particolare quando negli ultimi 2-3 anni ho incamerato le collezioni personali dei suoceri di ben due colleghe (biblioteche maschie, tra Seconda guerra mondiale, tonnellate di “Storia illustrata”, modernariato novecentesco stile Giuseppe Berto e Giorgio Saviane e Giovanni Arpino) e in più l’intero patrimonio della biblioteca comunale del paesello d’origine di una parte della mia famiglia, che è stato letteralmente buttato in strada da un giorno con l’altro.
Aggiungendo i circa 200 euro al mese che spendo da quando ho vent’anni, sono arrivato alla cifra monstre di 9.034 volumi, conteggio nel quale non ho ancora inserito gli scampoli di un’altra biblioteca che proprio in questi giorni sta per essere “smantellata” definitivamente (ma sulla quale non posso dir nulla perché rispetto a quella del paesello è più rinomata). Praticamente non ho più spazio per muovermi: dopo aver stipato fino all’inverosimile l’appartamento affittato pochi mesi fa, sono stato costretto a tornare dai miei, nella cameretta che già fu un porto e ora è un cesso.
Per giunta, l’ultima “ondata” ha dato il colpo di grazia anche al mio garage, fino a ieri ultimo avamposto nonché valvola di sfogo: l’eventualità di dover lasciare l’auto per strada mi ha fatto sorgere finalmente il dubbio di essere affetto da quel famigerato “disturbo da accumulo”, così avvincente da meritarsi la spettacolarizzazione attraverso documentari, serie televisive e reality. Nel caso dei libri, la patologia acquisisce l’ovvio nome di bibliomania (da non confondere con la bibliofilia, a quanto pare considerata un passatempo innocente): è inevitabile però che anch’essa acquisisca un carattere letterario -vorrei vedere- e “romantico”, risultando meno preoccupante di quel che potrebbe sembrare.
Ciò che più concorre a rattristarmi e angosciarmi è il fatto che se tenessi questo ritmo per i prossimi cinquant’anni (presumendo che la mia speranza di vita rispetti la media italiana, cosa che tutto sommato non mi auguro), arriverei ad accumulare senza sforzo qualcosa come quarantamila volumi, che il giorno dopo il mio decesso verrebbero disintegrati nel giro di un’ora da un potentissimo raggio laser smaterializzatore (voglio immaginarmi il futuro come ce l’avevano promesso, va bene?).
D’altro canto non riesco a rassegnarmi alla fine di quella che Walter Benjamin definisce l’epoca marziale del collezionista, nella quale solo ai libri letti viene concesso il privilegio di apparire nello scaffale: continuo a provare un inconscio fastidio nell’adocchiare un volume magari comprato nel 2008 ancora avvolto nel cellophane. L’idea di gettarne via qualcuno senza nemmeno averlo sfogliato non mi pare dunque attuabile; tanto meno quella di regalarli, poiché sarebbe come trasmettere il peccato ai discendenti.
Si percepisce un residuo di “magia” nella delega alla lettura che si concede al destinatario di tali colossali strenne: come se l’unico modo per ripagare il debito sia l’obbligo di leggere tutto. No, probabilmente è solo un modo per illudersi che i libri non stiano facendo la fine del vinile e delle videocassette. Eppure come tecnologia sembra ancora tener botta, se per sbarazzarsene bisogna appunto continuamente annunciarne o teorizzarne la scomparsa.
Comunque sia, la situazione in cui mi trovo mi costringe ad assumere provvedimenti drastici: in primo luogo, non si compra più nulla (è chiaro che non posso impedire alla gente di regalarmeli, soprattutto perché poi non saprebbero che prendermi per Natale considerando la miseria dei miei interessi materiali); poi, si comincia a scartare, anche con una certa risolutezza ma sempre rispettando la raccolta differenziata.
Dovrò forse tenere un conteggio dei volumi fatti a pezzi e impacchettati in scatoloni di fortuna? Almeno questo, mi sembra doveroso. Anzi, per edulcorare il tutto e farlo sembrare meno degradante ed esecrabile, battezzerò la nuova “iniziativa” Progetto Theresianum, definizione naturalmente ispirata ad Auto da fè di Canetti (anche se non intendo mangiarmeli, perché pure la bibliofagia è considerata una patologia).