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La canzone che mi ha rovinato la vita

La GM Press ha da poco inaugurato una serie di libretti dedicati a una canzone, dando finora alle stampe quattro titoli: Enjoy The Silence dei Depeche Mode, Il cielo in una stanza di Gino Paoli, Con il nastro rosa di Lucio Battisti e Something dei Beatles. Non male, anche se ce ne vorrà per raggiungere il livello della collana britannica Thirty-Three and a Third (33⅓) che ne ha già pubblicati 150 per giunta dedicandoli non a un solo pezzo ma a interi album (e con nomi del calibro di Jonathan Lethem, al quale è stata affidata la monografia su Fear of Music dei Talking Heads)*.

Se avessi l’opportunità di scegliere un pezzo da “raccontare” (cioè fingere di saperne qualcosa mentre snocciolo le mie sfighe – alla fine lo scopo è quello), opterei per Hope dei Descendents, che mi ha praticamente rovinato la vita dal primo momento in cui l’ho ascoltata (con quasi vent’anni di ritardo, ma nel 1982 non ero nemmeno nato e almeno fino all’adolescenza i miei gusti furono piuttosto “integrati”, finché Satana giunse nelle nostre case, non più carduccianamente su rotaia, ma per fibra ottica).

Why can’t you see you torture me
[Perché non capisci che mi stai torturando]

You’re already thinking about someone else
[Stai già pensando a qualcun altro]

When he comes home
[Quando lui tornerà a casa]

You’ll be in his arms and I’ll be gone
[Sarai nelle sue braccia e io me ne sarò andato]

But I know my day will come
[Ma so che il mio giorno verrà]

I know someday I’ll be the only one
[So che un giorno sarò l’unico]

So now you wait for his spark
[Quindi ora aspetti la sua scintilla]

You know it’ll turn you on
[Sai che ti farà eccitare]

He’s gonna make you feel, the way you wanna feel
[Ti farà sentire nel modo in cui vorrai sentirti]

When he starts to lie
[Quando inizierà a mentire]

When he makes you cry
[Quando ti farà piangere]

You know I’ll be there
[Sai che ci sarò]

My day will come
[Il mio giorno verrà]

But I know someday I’ll be the only one
[So che un giorno sarò il solo]

Call me selfish
[Chiamami egoista]

Call me what you like
[Chiamami come vuoi]

But I think it’s right
[Ma io penso sia giusto]

To want someone for all your own
[Volere qualcuno tutto per sé]

And not to share her love
[E non condividere il suo amore]

’cause I’ll have my way
[Perché farò a modo mio]

You won’t have a say anyway
[e tu non avrai voce in capitolo]

’cause I’ve got you
[Perché sei mia]

You don’t stand a chance
[Noon avrai alcuna possibilità]

So now you wait for his cock
[Ecco che ora aspetto il suo cazzo]

you know it’ll turn you on
[perché sai che ti ecciterà]

He’s gonna make you feel, the way you wanna feel
[Ti farà sentire nel modo in cui vorrai sentirti]

When he starts to lie
[Quando inizierà a mentire]

When he makes you cry
[Quando ti farà piangere]

You know I’ll be there
[Sai che ci sarò]

My day will come
[Il mio giorno verrà]

I know someday I’ll be the only only one
[So che un giorno sarò l’unico]

So now you want perfection
[Quindi ora vuoi la perfezione]

I see your self destruction
[Vedo la tua autodistruzione]

You don’t know what you want
[Non sai cosa vuoi]

It’s gonna take you years to find out
[Ti ci vorranno anni per capirlo]

I’m not giving up
[Io non mi arrendo]

And when you’ve had enough
[E quando ne avrai abbastanza]

You’ll take your bruised little head
[Con la tua testolina piena di lividi]

And you’ll come running back to me
[E tornerai di corsa da me]

You know that I’m gonna be the only one
[Sai che sarò l’unico, il solo]

Only one
[il solo]

I Descendents, fondati in California nel 1978, sono considerati pionieri di innumerevoli sottogeneri alternativi, dall’hardcore melodico al college rock, dallo skate al pop-punk. Il leader della band è Milo Aukerman, che da trent’anni ci tiene ad accompagnare il suo nome con la famigerata sigla Ph.D in onore del dottorato in biochimica ottenuto trascurando la band, la quale ricambiò lo sgarbo sin dall’album di debutto (Milo Goes to College), prendendolo amichevolmente in giro per aver preferito l’accademia al punk (per la cronaca, Aukerman ha smesso ufficialmente di fare lo “scienziologo” nel 2016, dopo che il colosso della chimica DuPont per cui lavorava lo ha spedito in Siberia).

Hope è una delle prime “ballate d’amore” del nuovo genere, e se fosse stata scritta in italiano mi sarebbe suonata tipo Riderà di Little Tony, mentre invece con l’inglese parve subito fighissima e mi penetrò nel sangue subliminalmente (ma non ho mai avuto modo di ascoltarla al contrario). Si tratta, in effetti, di una banale geremiade su un amore post-adolescenziale non corrisposto che pone il maschietto nella ridicola posizione del cavalier zerbente in attesa, seppur con toni talmente accondiscendenti da sfiorare il maschilismo (You don’t know what you want | It’s gonna take you years to find out), che la bella si stanchi del bullo di turno e si accasi con lui, Milo, il tizio che non è riuscito a togliersi la sfiga di dosso nemmeno col punk. Il nerd che soffia al macho la più carina del liceo era un mito diffuso nelle commedie romantiche anni ’80, in seguito deriso da decine di studi che hanno rivelato quel che tutti avevano già potuto constatare nei loro lacrimati anni scolastici (anche se non è mai stata consumata alcuna “vendetta” a livello cinematografico, ché il lieto fine continua ad andare per la maggiore).

Questa canzone, dicevo, mi ha “rovinato”, instillandomi l’illusione che a un certo punto anch’io avrei avuto il mio momento, mentre attorno a me le becky, cioè le alternative, le sfigate, continuavano a farsi discotecari e cazzoni assortiti. Troppo a lungo ho negato la realtà per motivi che neppure ricordo: forse perché, semplicemente, anche a me stava bene quel tipo di speranza. Poi è andata sempre peggio: e alla fine pur io ho dovuto smettere di sperare, nonché ingollare la fatidica “tonnellata e mezza di merda” in un contesto dove sulla tradizionale doppiezza femminile si è innestata una nuova ondata di libertinismo.

Manco a farlo apposta, per aver espresso il desiderio di avere “qualcuna tutta per me” è giunta persino al sottoscritto l’accusa di “egoismo”, con quasi quarant’anni di ritardo sui patemi californiani (So call me selfish | Call me what you like | But I think it’s right | To want someone for all your own | And not to share her love); tuttavia, incredibili a dirsi, è stato l’unico ricatto psicologico al quale non sono riuscito a cedere. Del resto lo diceva pure un Lenin eccezionalmente basato alle lesbicone in salamoia che volevano sputtanargli la rivoluzione in tutti i sensi (e così anche i marxettari sono sistemati):

«Voi conoscete senza dubbio la famosa teoria secondo la quale, nella società comunista, soddisfare i propri istinti sessuali e il proprio impulso amoroso è tanto semplice e tanto insignificante quanto bere un bicchier d’acqua. Questa teoria del “bicchier d’acqua” ha reso pazza la nostra gioventù, letteralmente pazza.
[…] Certo, la sete deve essere tolta. Ma un uomo normale, in condizioni ugualmente normali, si butterà forse a terra nella strada per bere in una pozzanghera di acqua sporca? Oppure berrà in un bicchiere dagli orli segnati da decine di altre labbra?
[…] Io non voglio affatto, con la mia critica, predi­care l’ascetismo. Sono lontanissimo da ciò. Il comuni­smo deve apportare non l’ascetismo, ma la gioia di vivere e il benessere fisico, dovuti anche alla pienezza dell’amore. Secondo me l’eccesso che si osserva oggi nella vita sessuale non produce né la gioia né il benessere fisico ma, al contrario, li diminuisce. Ora, in tempi rivoluzionari, ciò è male, molto male». 

Prima che, come dicevo, Satana giungesse su fibra, avrei forse potuto imbastire un temino decente sull’argomento Musica & Amore: chi si ricorda ancora come si facevano le ricerche offline? Ok Xoomer. Con una semplice Rizzoli Larousse il percorso sarebbe stato già tracciato (in fondo gli studenti non si sono instupiditi perché copiano da internet, semmai è per la miseria di un mezzo gestito con rigidi criteri di omogeneizzazione e massificazione mascherati da algoritmi ed esigenze di mercato): il Don Giovanni, La traviata, Carmen, “O mio babbino caro”, i Liebesträume di Liszt, la canzone napoletana ecc… Probabilmente avrebbe trovato spazio anche un capitoletto sulla colonna sonora di Rota del Romeo e Giulietta di Zeffirelli, assimilata direttamente al pre-moderno. Ché è dal confronto con la “modernità” che sarebbero sorte infinite diatribe con madri e zii in accento panterronico: “Ma che Bidols e Uddue, mettice Amminoreitano ca ete megghiu te Ginupaolo e Battisto anzieme”, mentre il giovane provava a emanciparsi con Venus in Furs dei Velvet Underground e qualcosa di Jeff Buckley: “Cieffbacley è mort affucat ma furse s’è assuicidate e pe’ nui cristiani te lu 1997 lo suiccidio ete ancore peccate, nu poti annominarlo alla scola ca lu prevete te fa abbocciare”. Erano peraltro gli anni della Cura di Battiato, che finalmente ridusse Heidegger a cantante per matrimoni: “E mettecce pure a Ucciodall’ ca nunnè ricchiò comm a Cieffbacley…  ♫♩te vogghiu bbene assajeeee♫♩”.

Generazione orribile, a ben vedere: uno si sentiva “moderno” ascoltando Hope che concettualmente è al di sotto di Perché l’hai fatto di Mino Reitano (scritta col fratello maggiore Franco, non dimentichiamolo), che se ci fossero ancora italiani decenti sarebbe stata rifatta in versione punk come dimostrazione indiretta della sua superiorità anche dal punto di vista prettamente musicale. Inutile girarci in torno, le sviolinate dell’ultimo secolo non meriterebbero nemmeno un rigo della tesina immaginaria, essendo tutte perfettamente liquidabili con quei tre versi di Jugoslavia dei Coma_Cose: “Musica pop, te la spiego: | Lei lo lascia, lui va in para | E voi che ci cascate, Niagara”.

Alla radio da cent’anni passa questo: latrati ispirati dall’astinenza dalla droga, o dall’amore (che poi è solo ossitocina, dunque anch’esso droga). Siamo in generale ben lontani dalle vette di Gesualdo da Venosa, principe dei musici e dei femminicidi, dunque mi fate ridere voi che vi considerate “sofisticati” perché vi siete innamorati di qualche fantasima ascoltando i Pixies invece che Don Backy (col quale ci sarebbe stata perlomeno una possibilità di trovar femmine in carne ed ossa: che Italia avremmo, con una vera autarchia musicale!).

A proposito di Carlo Gesualdo, lo stesso Battiato liquida il “peccatuccio” di aver ammazzato la moglie in un pezzo di metà anni ’90 (“Musicista assassino della sposa – cosa importa?”), al pari del Viceré dell’epoca, che fece archiviare il processo il giorno dopo “stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso”. Anche qui, l’adolescenza da italiota frustrato, per quanto imbarazzante, mi ha comunque concesso di imbattermi nel Mad Prince of Venosa non nella parodia di una parodia della cosiddetta “musica colta”, ma in una pagina delle Porte della percezione di Aldous Huxley, che “recensisce” i madrigali durante un trip alla mescalina:

«Il Concerto in do minore per pianoforte di Mozart fu interrotto dopo il primo tempo e sostituito da una raccolta di madrigali di Gesualdo.
“Queste voci”, dissi con ammirazione, “queste voci sono una specie di ponte con il mondo umano”. E rimasero un ponte anche quando cantarono la più straordinariamente cromatica tra le composizioni del principe folle. Attraverso le rozze frasi dei madrigali, la musica proseguì la sua corsa, senza rimanere nella stessa tonalità per più di due battute. In Gesualdo, questo fantastico personaggio da melodramma di Webster, la disintegrazione psicologica aveva esagerato, aveva spinto al limite estremo la tendenza insita nella musica modale in opposizione a quella completamente tonale. Le opere che ne risultavano avrebbero potuto essere scritte dall’ultimo Schönberg.
“Eppure”, mi sentii costretto a dire, mentre ascoltavo questi strani prodotti di una psicosi della Controriforma elaborati in un’antica forma di arte medioevale, “eppure non importa che sia tutto a pezzi. L’insieme è disorganizzato, ma ogni frammento individuale è in ordine, è il rappresentante di un Ordine più Alto. L’Ordine più Alto prevale anche nella disintegrazione. La totalità è presente anche nei pezzi sparsi. Più chiaramente presente, forse, che in un’opera completamente coerente. Almeno non si è cullati in un senso di falsa sicurezza da qualche ordine meramente umano, meramente fabbricato. Si deve contare sulla propria percezione immediata dell’ordine ultimo. Così in un certo senso la disintegrazione può avere i suoi vantaggi. Ma senza dubbio è pericoloso, terribilmente pericoloso. Supponiamo di non poter tornare indietro, fuori del caos…”»

Sia chiaro, ho citato il fratello scemo di Julian solo per dimostrare come tutto il Novecento sia un secolo di cazzari (il Principe paragonato “all’ultimo Schönberg”, e noi che ridiamo di Maurizio Pistocchi). E anch’io purtroppo, si parva licet, sono novecentesco. Al complesso di inferiorità di un “moderno”, che deve poi subito passare ad Alban Berg probabilmente per non finire in overdose (noto che tutti si concentrano su quel che c’è al di là delle “porte”, facendo finta di non accorgersi quanto la fattanza pregiudichi il nostro senso critico persino nel momento in cui viene inscenata nella trance, nel ballo e in quella vera e propria folie à deux rappresentata dalle discussioni sui gusti musicali tra un morto di figa e una figa nelle chat private dei social – giustissima allora la controversia di Viper, You’ll cowards don’t even smoke crack), a tale complesso di inferiorità, volevo far notare, il Bel Paese assomma l’immortale istinto di autoflagellazione, che rende impossibile riconoscere, da moderni, la grandezza di Gesualdo senza l’ansia di ridurlo a “precursore di quacchecosa” e, da italiani, senza accompagnare qualsiasi accenno al suo genio col fascino morboso per le sue vicende personali (precursore anche del “femminicidio”?).

Certo, l’arte sua fu accidentalmente immillata dal romitaggio, e per l’indole melanconica enfiata dal delitto e per il timor di rappresaglie dai parenti del fedifrago, il duca-conte Carafa trucidato dai suoi sgherri al grido di “Ammaza, ammaza quest’infame et questa bagascia! A casa Gesualdo corna!”; e anche quei madrigali che, sempre per accidente, si colorarono di accenti espiatori (S’homai d’ogni su’ errore, Sparge la morte al mio Signor nel viso), rappresentano in ogni caso un alibi davvero misero per la riduzione ad assassino (manco fosse un Althusser qualsiasi, cari marxettari).

Anzi, per paradosso mancherebbe forse una Hope tra i capolavori del Principe di Venosa: il tema del tradimento si scioglie nelle classiche “crudezze” (sic) d’amore, in languori e struggimenti, epperò compaiono anche sdegnamenti (Questa crudele e pia | Piange al mio pianto e duolse al mio dolore, | Ma non arde l’ardore…) che più avvicinano, dalla nostra angusta prospettiva, il secentesco Regno ‘e Napule e il “controriformismo psicotico” ad un college losangelino dei primi anni ’80. Ancor più eloquente il definitivo Io tacerò, summa delle sue torture spirituali sempre per accidente in parallela convergenza col sangue versato per amore.

Io tacerò, ma nel silenzio mio
[I will keep quiet, yet in my silence]

Le lagrime e i sospiri
[my tears and sighs]

Diranno i miei martiri.
[shall tell of my pain.]

Ma s’avverrà ch’io mora,
[But if I should die]

Griderà poi per me la morte ancora.
[Death shall cry out for me once again.]

In van dunque, o crudele,
[Thus in vain, oh cruel one,]

vuoi che’l mio duol e’l tuo rigor si cele,
[yearn you for my pain and your harshness to be hidden]

poi che mia cruda sorte
[since my cruel fate]

dà la voce al silenzio ed a la morte.
[gives voice to silence and to death.]

Altro che Hope: cruel fate, silence and death. Ripensandoci però, anche i Descendents non sono poi tanto “cuccati” come li ricordavo: al contrario, a fronte di un Little Tony -comunque grande- che canta “Perché tu, io lo so | Sei migliore di me”, Milo dice “Sei una affamata di verga che ti fai trattare da oca perché hai un cervello troppo piccolo [little head] per capire quel che vuoi”. Ecco, non ci sarebbe null’altro da aggiungere, se non che, alla luce di questi grandi e piccoli martirî, non sono le canzoni a rovinare la vita degli uomini.

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