La città di 15 minuti: una magnifica utopia eugenetica

Il concetto di “Città di 15 minuti” è divenuto uno dei leitmotiv della gayosa macchina da guerra wokegreen-arcobaleno. Esso si riferisce alla necessità di edificare città ultra- o post- moderne, oppure distruggere quelle “moderne”, in base a progetti che consentano di raggiungere il luogo di lavoro, i centri commerciali, le scuole, gli ospedali e tutto il resto (“la banca e la posta”) tramite bicicletta, mezzi pubblici o i cari vecchi piedi (o pietini). Questo approccio, come dice la pagina di Wikipedia in inglese, “mira a ridurre la dipendenza dall’auto, promuovere una vita sana e sostenibile e migliorare il benessere e la qualità della vita degli abitanti delle città“.

Il concetto è stato teorizzato da Tizio Gayo e poi reso popolare da bla bla bla eccetera eccetera. Sintetizziamo all’estremo (vi giuro che sarò sintetico, non smettete di leggere): la prima a creare la meme (d’ora in poi mi riferirò ai “meme” di sinistra, che sono perfettamente integrati nel sistema e infatti andrebbero semplicemente definiti come propaganda, al femminile) è stata il/la sindac* di Parigi Anne Hidalgo, che ha lanciato l’idea nel panorama del piddinismo internazionale e creato l’ennesima banalità pseudo-colta con cui confezionare articoli in serie.

Al di là delle sempre sacrosante obiezioni del cosiddetto “Pianeta Strampalato”, la galassia 262/paraboomer/QAnonimo (Gargiulovsky vi osserva), trovo che finora nessuno, da “destra” come da “sinistra”, abbia trovato il modo di evidenziare come tale progetto ultraprogressista si richiami apertamente alle utopie socialiste primonovecentesche (nei confronti delle quali persino Piero Itle, una volta giunto al potere, dovette porre un freno).

Per elaborare una critica minimamente sensata a quello che, allo stato attuale, sembra uno slogan innocente, ma che negli anni avvenire imporrà probabilmente nuove “regole europee” fondate sul sacrificio del primogenito cisgender, voglio basarmi su un articolo uscito su “IoDonna” (wow that’s gay) il 17 settembre 2023: Idee per una città del futuro. L’articolista (she/her) esordisce così:

«È il 2043. Un ventenne si aggira per la città. L’aria è pulita, perché circolano poche auto elettriche. Si muove in bicicletta, a piedi o in metropolitana, che arriva ovunque anche a notte fonda. In ogni quartiere c’è un parco, fra gli edifici scorrono corridoi verdi pieni di piante. Le auto parcheggiate ovunque e l’asfalto rovente d’estate sono un ricordo del passato. A pochi passi il ragazzo trova tutto ciò di cui ha bisogno, ci sono case da affittare a prezzi equi per andare all’università o per vivere da soli».

Come è noto, questo tipo di utopie vengono sempre spostate di almeno vent’anni avanti, dunque alla fine dell’anno scorso l’universo si sarebbe magicamente rinnovato votando PD nel 2043, mentre se il pezzo fosse stato copia-incollato oggi di certo lo yobel sarebbe stato spostato al 2044. In ogni caso, il quadro dipinto dall’Autrice supera di gran lunga le fantasie più idilliache dei separatisti bianchi d’oltreoceano e si perde nelle nuvole di un’utopia inconfessabile: una Città Bianca, e non nel senso di Ostuni.

Però “IoDonna” garantisce che il progetto si possa realizzare anche nei quartieri alle prese con la diversità: il “sogno” potrebbe “diventare realtà” grazie al “network internazionale” di un centinaio di sindaci delle maggiori metropoli all’insegna della sostenibilità e della equità (sic & sic).

E per corroborare i pii desideri deve ricorre al solito boiaro meneghino in grado, oltre che di concionare per ore di “profughi climatici” e di alberi (proprio gli alberi) come “strumento inclusivo”,  di droppare la barra del secolo: 3-30-300 («Ognuno di noi dovrebbe poter vedere da casa sua almeno 3 alberi, vivere in un quartiere con almeno il 30 per cento di alberi e poter raggiungere un parco entro 300 metri»).

Poi si finisce subito fuori tema con la siccità, i nubifragi e altre catastrofi, tipo “le auto parcheggiate sulle radici”, arrivando ovviamente a citare la Hidalgo di cui sopra, che vorrebbe trasformare Parigi in una “città arcipelago”. Vi faccio notare che finora nessuno ha nominato l’altro aspetto della formula 3-30-300: Ognuno di noi vede dalla sua casa sua almeno 3 immigrati che pisciano contro gli alberi, vive in un quartiere con almeno il 30 per cento di immigrati e può raggiungere una piazza di spaccio entro 300 metri.

Tuttavia, a un certo punto si nomina l’innominabile con l’incoscienza tipica della casta semi-colta: Città arcipelagio (sic), Vienna apripista già nel 1923. L’idea vi sembra innovativa? (Leggere con tono da d-parola saccente): «Sappiate che a Vienna i primi esperimenti di quartieri con la farmacia, il parco, il dentista, la biblioteca e persino una clinica risalgono al 1923. E riguardavano l’edilizia popolare».

La scrivente non elabora oltre. Di cosa stiamo parlando, esattamente? Degli esperimenti di ingegneria sociale del socialdemocratico Julius Tandler (di origine ebraica), che proprio nel 1923 si mise in testa di fare della capitale austriaca il terreno di coltura dell’Uomo Nuovo. All’epoca tuttavia il “sistema Vienna” poteva essere sbandierato come avanguardia nel welfare solo perché “progressismo” faceva rima con “eugenismo” (il lemma esiste e volevo che facesse effettivamente rima, va bene?).

Tutto quello che veniva offerto nella “Vienna di 15 minuti” traeva infatti origine dai presupposti scientifici (per l’epoca) dell’eugenetica che, come sostiene la storica americana (ebrea) Edith Sheffer, “godeva del sostegno di tutto lo spettro politico, dalla sinistra i conservatori, dai clericali alle femministe” ed è obiettivamente rintracciabile “alla base di tutti i primi sistemi di welfare in Europa e negli Stati Uniti“.

Naturalmente, per distinguerla dall’orrenda ed esecrabile eugenetica nazista, gli studiosi in tal caso parlano di eugenetica positiva. Sempre per citare la storica americana (autrice di un importante studio su Hans Asperger):

«Tra il 1923 e il 1934 [a Vienna] furono costruiti oltre 380 palazzi per ospitare 220.000 persone, un decimo della popolazione cittadina. Questi imponenti “supercondomini” erano dotati di un moderno sistema idraulico, di cucine salubri, illuminazione adeguata e cortili. Gli affitti incidevano sul salario medio di un operaio per circa il quattro per cento. Il dilagare delle malattie fu contrastato attraverso la costruzione di ospedali ed esami medici gratuiti negli asili e nelle scuole. Poiché la tubercolosi e il rachitismo erano molto diffusi, furono inaugurati parchi giochi, strutture sportive, oltre venti piscine pubbliche all’aperto, e ai giovani venne offerta la possibilità di partecipare a campi estivi in campagna. Per l’educazione dei bambini, e per tenerli lontano dalla strada, furono aperti molti asili nido, pensati programmi per il dopo scuola e fu più che raddoppiato il numero delle scuole materne, che salì a 55».

In cambio della passeggiata di 15 minuti, Tandler chiedeva solo la sterilizzazione coatta degli “inferiori”, cioè degli individui ritenuti affetti da “malattie ereditarie, invalidità fisiche o mentali”, non ché di “determinati gruppi di criminali, e [….] delle vite indegne di essere vissute“. Ancora la Sheffer:

«La diffusione dell’eugenetica nelle pratiche del welfare nel corso degli Anni Venti medicalizzò le ansie della società. Vienna, metropoli insolitamente grande in un Paese quasi in prevalenza rurrale, condensava in sé i peggiori incubi delle persone rispetto alla società moderna Attraverso i servizi sociali si cercò di raddrizzare i guasti dell’urbanizzazione – poverà, abitazioni inadeguate, strade sporche, disordine – regolando le famiglie, i corpi e i comportamenti. Le iniziative pubbliche agirono sulla classe operaia come se fosse una patologia da curare. Lo Stato stabilì e fece rispettare nuove regole di comportamento adeguate agli standard della classe media; intervenne sempre di più nella vita privata dei cittadini».

(Non sfugga che nel pezzo di “IoDonna” sia presentata come esperienza “catalizzatrice” il covis: «Il Covid ci ha fatto capire quanto sono utili i servizi di prossimità: scuole pubbliche, asili, negozi, servizi sanitari e culturali. Diffonderli ovunque e con lo stesso livello qualitativo serve a ridurre le diseguaglianze»).

A questo punto, è inevitabile lo struggimento interiore: accettare che la parte più sfigata del sinistrume faccia il “lavoro sporco” introiettando nel mainstream le idee proibite dipingendole con una flebile vernice rosso-verde, oppure opporsi come l’ultimo boomer plebeo in nome della “libertà di andare alla banca e alla posta”, dogma che implica la necessità che persino a cinesi e bangla sia consentito di guidare una macchina per raggiungere rispettivamente, in una sublime dinamica chiasmatica, il minimarket h24 e l’All You Can Eat?

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6 thoughts on “La città di 15 minuti: una magnifica utopia eugenetica

  1. Meno noto delle città “15 minuti” è il piano C40, alleanza tra 40 città del mondo per contenere il riscaldamento globale. C40 “… prevede l’abolizione di carne e latte, l’addio ai mezzi di trasporto privati e al massimo 3 capi di abbigliamento all’anno”, ovviamente Sala è uno degli aderenti piu’ entusiasti

  2. Ma perché fermarsi ai soli benefici della città dei quindici minuti, quando nelle immediate vicinanze di questo concetto/progetto c’è il suo futuribile cugino meno conosciuto (perché tacciato di complottismo) del Geofencing, tramite il quale si creano incentivi e disincentivi a “rimanere” nell’area dei quindici minuti suddetta.

    Limitando di conseguenza le capacità femminili di saltare tra entità sociali diverse, specie geograficamente, per garantirsi una totale e illimitata disponibilità di partner, risorse, e fedine sociali pulite.
    “It takes a Village”, e la permanenza forzata sotto la sorveglianza e memoria di un “Village”, per costringere certe nature sregolate ad essere funzionali per la collettività.

  3. Heidegger e ancor meglio Gadamer l’avevano capito molto bene già oltre mezzo secolo fa. Ora sono cazzi nostri. E a qualcuno piacerà molto, dati gli odierni gusti.

  4. Quale che sia il regime le città portano quasi sempre ad una tendenza di ipermanagerializzazione e sovrasocializzazione, tuttavia non giocherei troppo con lo sperpero e l’azzardo sulle libertà negative-urbane, una volta perse… Eh! Potremmo dire che le città hanno poi la tendenza a distruggersi e tanto vale fare legionarismo rurale tout court si potrebbe pensare come soluzione se le città fanno soffrire ma anche lì sai cosa stai facendo e con chi hai a che fare ? Ma robe spicciole tipo l’abate o il capo mezzadro che ti danno terra ed alloggio saranno poi persone a modo ?

  5. “ma che negli anni avvenire imporrà probabilmente nuove “regole europee” fondate sul sacrificio del primogenito cisgender…” Geniale! E sarà sempre nel corso Abramitico, giudeo cristiano, di questo ciclo.

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