Site icon totalitarismo.blog

La controrivoluzione è un pranzo di gala: l’incontro tra Borges e Videla

L’8 settembre 1976 Jorge Luis Borges rilasciò qualche dichiarazione di troppo alla Radiotelevisión Española:

«La democrazia è una superstizione […]; i regimi militari [hanno] attualmente assunto grandi responsabilità. Durante la guerra civile spagnola ero dalla parte dei repubblicani, ma poi mi sono reso conto, in tempo di pace, che il generale Franco era degno di elogi. Il regime del generale Videla domina a poco a poco il caos nel quale si trova l’Argentina».

All’epoca un cronista de “La Stampa” lo accusò di “insensibilità politica e morale”. Meno di dieci anno dopo (il 3 novembre 1985), lo scrittore rinnegò i suoi convincimenti a “El Pais”:

«Nel 1976, quando i militari fecero il colpo di Stato, io pensai: infine avremo un governo di galantuomini. Poi furono loro stessi a farmi cambiare opinione, anche se mi giunsero tardi le notizie a proposito dei desaparecidos, dei crimini e delle atrocità che commisero».

Per Borges la colpa di Videla fu dunque quella di non esser stato un galantuomo. Se è vero ciò che sosteneva Mao, ovvero che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, allora la controrivoluzione doveva essere quel “pranzo di gala” a base di torta salata di verdure, ravioli, macedonia, Bianchi 1887 e San Felipe bianco, al quale il genio partecipò assieme a Sábato e tanti altri alla Casa Rosada, in un giorno di tarda primavera del 1976.

«“L’ho ringraziato personalmente per il golpe del 24 marzo, che ha salvato il Paese dalla vergogna, e ho espresso la mia solidarietà per aver assunto la responsabilità del governo. Io non ho mai saputo governare la mia vita, tanto meno riuscirei a governare un Paese”, dichiarò Jorge Luis Borges ai giornalisti della Casa Rosada, che sorridevano per aver trovato un titolo al loro articolo.
Mercoledì 19 [maggio 1976], Borges, Ernesto Sábato, Horacio Esteban Ratti (presidente della Società Argentina degli Scrittori) e Leonardo Castellani (sacerdote e scrittore) per oltre due ore si trattennero a pranzo con il generale Jorge Videla e con José Villarreal, segretario generale della Presidenza.
Come aperitivo gli ospiti bevvero whisky, sherry e succo di frutta. Videla cominciò la conversazione chiedendo a Borges del suo viaggio negli Stati Uniti e dell’esito del suo intervento agli occhi. Lo scrittore rispose di essere rimasto piuttosto spossato da quel viaggio durato quattro mesi, soprattutto a causa del cibo americano. Riguardo invece alla vista, Borges volle dimostrare la sua abilità indicando esattamente il luogo nel quale si trovavano un appendiabiti, una sedia e una foto. Subito dopo la sua esibizione, lo scrittore si sentì mancare, tanto che Videla e Ratti dovettero aiutarlo a tenersi in piedi.
Solo quando Borges si riprese, gli ospiti passarono alla sala da pranzo privata.
“Lo sviluppo della cultura è centrale per lo sviluppo di una nazione”, ripeté Videla più volte di fronte agli ospiti accondiscendenti.
A destra del Presidente sedeva padre Castellani. Sulla sinistra, Ernesto Sábato. Di fronte a lui Borges. E a i suoi lati Ratti e il generale Villareal. Il cameriere presentò un menù che la stampa avrebbe poi definito “sobrio”: torta salata di verdure con salsa bianca, ravioli, macedonia con crema o caramello, vini Bianchi 1887 e San Felipe bianco.
Dopo il pranzo, Videla rivolse un ringraziamento agli scrittori, dichiarandosi onorato per aver condiviso il tavolo con personalità così eminenti.
“È impossibile sintetizzare una conversazione di due ore in poche parole”, affermò all’uscita Ernesto Sábato, “ma posso dire che con il Presidente abbiamo parlato di cultura in generale, di tematiche spirituali, culturali, storiche, anche in rapporto ai mezzi di comunicazione di massa. C’è stata molta comprensione tra noi, grande rispetto reciproco, e in nessun momento la conversazione è degenerata in polemiche letterarie e ideologiche, né siamo caduti nella banalità; ognuno ha potuto esprimere liberalmente la propria opinione sulle questioni che sono state affrontate. È stato un lungo viaggio attraverso i problemi culturali del nostro Paese. Abbiamo anche discusso della trasformazione dell’Argentina, che dovrà necessariamente cominciare dal rinnovamento della cultura nazionale”.
Gli chiesero inoltre un parere su Videla: “Il Generale mi ha fatto un’ottima impressione. Egli è un uomo colto, modesto e intelligente. Sono rimasto colpito dalla sua apertura mentale e dalla sua cultura”. I cronisti erano tornati a sorridere: ora avevano anche la chiusura dell’articolo»

(Martín Caparrós – Eduardo Anguita, La voluntad. Una historia de la militancia revolucionaria en Argentina 1976-1978, Buenos Aires, 2006, p. 96).

Non sappiamo precisamente di cosa discussero i commensali: i giornalisti riportano solo gli inebrianti elogi del longevo Ernesto. Non penso che tra di loro abbiano parlato del progetto di Videla di far uscire i sovversivi dal loro bozzolo, di trasmutare i bruchi con un’ardita operazione di igiene sociale: eliminare gli oppositori attraverso il gioco dinamico delle forme, come in una pittura futurista. Tuttavia non è confortante immaginare che, allorché ne avessero discusso schiettamente, Borges avrebbe commentato gli spropositi del General con un antico detto di Lao Tzu: «Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla».

«La democracia es una superstición, basada en la estadística. Toda la gente no entiende de política, como no podemos entender todos de retórica, de psicología o de álgebra»
(“La democracia es una superstición”. Declara Borges al llegar a Madrid, “El País”, 8 Septiembre 1976)

«Sentí que Averroes, queriendo averiguar lo que es un drama sin haber sospechado lo que es un teatro, no era más absurdo que yo, queriendo imaginar a Averroes, sin otro material que unos adarmes de Renan, de Lane y de Asín Palacios»
(“La Busca de Averroes”, El Aleph)

Una lieve afflizione offuscò l’effimera serenità del General: non la subversión, difetto emendabile con un minimo di deontologia militare; ma un problema d’indole filologica, connesso con l’opera monumentale che lo avrebbe giustificato davanti al mondo: la formula perfetta della repressione. Due parole dubbie lo hanno interrotto al principio dell’impresa: Libertà e Democrazia. Le aveva trovate, anni prima, sulla stampa nazionale ed estera; nessuno, in Argentina, aveva la più pallida idea di quel che volessero dire. Quelle due parole arcane pullulavano ora sui giornali di tutto il mondo; impossibile evitarle.
Infine, una strana melodia fece dissolvere quelle meditazioni: attraverso l’inferriata del balcone alcuni ragazzi seminudi erano venuti a giocare nel piccolo patio. Uno, in piedi sulle spalle di un altro, faceva da pilota; quello che lo sosteneva, non senza fatica, era un aeroplano; il terzo, inginocchiato nella polvere, rappresentava il sovversivo. Il gioco non poteva che durare un attimo, poiché tutti desideravano impersonare il pilota. Il General li sente litigare nel gergo imbastardito del lunfardo. La lingua del tango gli riportò alla mente quel tale scrittore che l’indomani mattina a pranzo sarebbe stato ricevuto con tutti gli onori…

Exit mobile version